Ci si avviava all’orario di chiusura: la Sala Mèliés, la più grande, la più comoda e la meglio attrezzata della Cineteca di Bologna incominciava ad essere silenziosamente vuota.
Ospitava la parte più consistente della Mostra sui 100 anni dalla nascita del regista Michelangelo Antonioni, morto nel 2007. Il vocìo sottile e attento, comunque animato, dei visitatori si stava lentamente spegnendo; come un sussurro che accompagnava la venuta delle ombre di un pur gradevole pomeriggio di fine estate.
Era la fine di settembre e l’estate non si decideva a lasciare il passo all’autunno …«Ma già … stiamo in Italia», pensava tra sé l’ultimo, misterioso visitatore che si attardava tra quelle sale ricche di fotografie, alcune delle quali di grande valore, perché uniche e originali; vi erano anche suoi documenti autografi, e altri riprodotti; accurate schede e materiali inediti sull’opera del grande cineasta ferrarese.
Egli, in disparte da tutti visitatori, aveva evitato con particolare cura i giovani cinefili presenti. Alla mostra guardava con golosa passione queste tracce di un intellettuale che aveva sempre ammirato svisceratamente, ma non poteva annunciarlo pubblicamente con l’amore, la forza e la passione che, invece, accompagnavano l’immagine interiore presente in lui.
Il visitatore “segreto”, quasi in incognito, era l’inglese Peter Greenaway, anch’egli famoso regista, anche se meno conosciuto. Vi si aggirava come un penitente: questa era la sgradevole impressione che egli stesso nutriva di sé; quasi senza volerlo i suoi passi erano felpati e controllati. Ad alta voce, dentro di è, si diceva: «Ma perché mi comporto così?… » Con se stesso voleva avere un atteggiamento “spiritoso”,ma aveva…«Paura?…Rimorso?… », non sapeva decidere tra sé e sé.
Intanto, le ombre del crepuscolo invadevano la sala. E una voce stava uscendo da una zona che sembrava stranamente più densa di silenzio e di oscuro: qualcosa di vivo e pulsante … «Ah, finalmente ci sei? »
Il povero Peter, sentì come una morsa che gli attanagliava il cuore: era una voce , «Quella voce …», che prima o poi sentiva che l’avrebbe raggiunto. Sudava freddo. Si era bloccato. Restava lì fermo come un’aringa, si disse poi, ripensando all’evento. Non sapeva da dove proveniva questo sibilo che diventava ogni momento più comprensibile; e difatti la “Voce” continuava: «Si Peter, sono io; Michelangelo…ma mi puoi chiamare Michi. Sono quello che tu hai copiato in I Misteri del Giardino di Compton House, il film che ti ha dato, come tu ben sai, nel 1982, il successo internazionale. Film la cui idea è interamente quella del mio Blow Up, che è del ‘66…»
«No Maestro: non è così», protestava meccanicamente il regista inglese, come aveva sempre fatto nei decenni a chi gli faceva osservare questa evidenza; ma la protesta era sempre più fievole e blanda: anche perché nessuno più gliela faceva a con intenti diffamatori; il che invece capitava nei tempi immediatamente successivi.
«Il film è ambientato alla fine del 600…».
«Lo so benissimo … Guarda che l’ho visto», pronunciò finalmente del tutto in vista la figura di Michelangelo Antonioni.
Era vestito, come al solito, con quella grande semplicità elegante che lo distingueva; e il suo dire era sempre calmo, scelto nell’eloquio, senza essere ricercato: sempre pervaso di quell’intelligente, sottile ironia, che lo rendeva unico.
Anche ora, in cui non apparteneva più al mondo dei viventi, il suo fascino distaccato, lo rendeva irresistibile.
Peter G. si sentì come uno scolaretto sorpreso in una marachella: non gli piaceva il suo stesso tono di voce che assumeva, egli aveva bene 70 anni!, ma suo malgrado ascoltò la sua voce che si “difendeva”, quasi implorando la comprensione e il perdono di Antonioni: «Maestro … ma non volevo farle un torto: al contrario era un omaggio all’intuizione che lei ha avuto sulla misteriosità e la infinita permeabilità e mistificabilità dell’immagine che noi crediamo oggettiva. Come avviene nel suo film, attraverso la fotografia di David Hemmings, che scopre un omicidio e ritiene di poterlo gestire, facendosi ingannare da Vanessa Redgrave, anche il mio pittore Anthony Higgins, si fa ingannare dalla bella Janet Suzman e come un idiota soccombe. Voleva dire come la struttura del potere, allora come oggi, si serva di queste per i suoi fini». «E l’ho molto apprezzato, ma perché ti sei incaponito a negare il mio apporto? Era evidente, e me ne sono molto compiaciuto, che tu avessi compreso il senso profondo del mio film: il tuo portarlo nel passato, al contrario di quel che sembra, l’ha ulteriormente universalizzato. Anche perché l’hai impreziosito di una visualità originale, bella e vivente che mi ha impressionato molto».
Si erano seduti vicino, e il silenzio li circondava. Per un po’ nessuno aveva voglia di aggiungere qualcosa a quanto detto. Antonioni riprese a parlare, sempre a bassa voce, dando corpo a pensieri meditati: «Ma non te la prendere Peter…a me dispiaceva per te, per il tuo talento che ne usciva sminuito: ho discusso a lungo di queste cose con Wim (Wenders, il regista che l’ha molto seguito e assistito nell’ultima sua fase di lavoro). Già è difficile difendere il lavoro che facciamo: figurati quello che non facciamo o che abbiamo già fatto e che non appartiene più a noi… Anche tu, come me, e anche lui, sei stato trattato male, non compreso: tu hai sempre ricercato linguaggi nuovi e non banali …».
Queste sue parole erano accompagnate dal sorriso, come un affettuoso saluto; e lentamente Greenaway vede l’immagine attenuarsi e scomparire. Si ritrovò solo. Finalmente più leggero, e come rinfrancato, lasciò il Museo, e fuori s’immerse nella calda luce estiva ancora viva …
Francesco “Ciccio” Capozzi