Dalla vetrina dove sono posizionato, ad angolo delle due vie, guardo tutto il passeggio. Si, sono un manichino e guardo il mondo; anche se sembra che il mondo guardi me.
Vedo tutti giorni gente che passa: ma, debbo dire, la grande maggioranza è gente che ho imparato a riconoscere perché mi sfila davanti tutti giorni, quasi alle stesse ore, in un senso e poi in un altro.
Anche se non so esattamente i nomi, i passanti quotidiani hanno tutti la loro identità, perché il loro passare e ripassare , pur davanti a me così lieve, lascia sempre una piccola parte della loro persona, soprattutto perché non se rendono conto.
Chi mi guarda mi lancia occhiate di desiderio: per lo più svagato e distratto, di chi vuole aggiungere al suo già fornito guardaroba un’altra mise griffata, è un desiderio comunque vivo, che spesso, coi suoi guizzi improvvisi, “scatenati” dalla sapiente e ruffiana messa in evidenza dei capi da parte di
Anna, la mia attuale Vetrinista, mette in luce la nullità della conversazione che stava tenendo con la sua amica, il partner, il familiare.
Poi, c’è il desiderio improvviso, quasi violento d’impossessarsi, attraverso il vestito, chiaramente il mio è un negozio di top level, di un’immagine sexy del proprio fisico che si vuole costruire, ma soprattutto che si ha in mente, e imporre in “quella” determinata occasione in cui ci si deve abbigliare con cura.
E non sono solo le donne giovani, ma soprattutto le cinquanta-sessantenni , che vogliono continuare a sentirsi ricche di fascino e di femminilità.
Ed è ben diverso da quando, tipo vent’anni fa, le donne a quarant’anni si sentivano “vecchie”.
Tutte le persone, nel loro rivolgersi a me, come i maschi agli altri, comunque si rivolgono con intensità, e nel mentre i loro sguardi attraversano la vetrina, lasciano qualche impressione di sé: a volte profonda, a volte superficiale: ma sempre è una parte di loro che è riflessa, e, senza che loro lo vogliano o se ne accorgono, resta su di me.
Io sono muto e immobile, sempre lo stesso, non rispondo in alcun modo, ma sono reso “vivente” dalle scintille di vita e di emozioni che passano nei loro sguardi su di me .
Io sono “giovane”, ho appena 12 anni e sono stato costruito in materiali innovativi, come le nuove e più leggere vetroresine, non quelle degli anni ‘60, sono di colore molto scuro brillante e faccio una splendida e misteriosa impressione, posto su una messinscena luminosa e adeguata.
Il mio creatore è Ralph Pucci, uno scultore, che mi ha plasmato con questi materiali, imponendo alla messa in scena in vetrina dei giochi di luce spesso straniant: sono “donna” dalle misure “perfette” 81-56-81, la mitica 42 perpetua, che tutte le donne vorrebbero avere.
Ma non mi sento “femmina”, più di quanto gli atri manichini si sentano “maschi”, per le forme con cui siamo stati costruiti.
Mi sento oggetto di desiderio: ma per ciò che è drappeggiato su di me: per il resto, io e gli altri, esistiamo senza vivere, come ci disse Pucci, guardandoci intensamente e rivolgendo il suo pensiero su noi, sue creature.
Sono stato alla Fiera Euroshop 2012 di Milano-Dresda, dove ho parlato con altri come me.
Era stata fatta una mostra di tanti come noi: addirittura dal 700, questi, costruiti in materiali come vimini e cartapesta: molti di loro si sentono spaesati, perché ne sono sopravvissuti ben pochi: ma possono raccontare memorie domestiche, di un’ampiezza senza pari, con fatti e misfatti a volte orripilanti, perché li avevano solo gli ateliers importanti e le Gran Dame del Bel Mondo.
Ne ho conosciuto anche di cera o di legno, dell’800. Ma quelli che mi hanno più colpito sono quelli creati da Lester Gaba, uno scultore che non li costruiva affatto per le esigenze dei negozi di abbigliamento: ma come creature immobili da porre come muti clienti nei ristoranti, Sale da Tè, Sale da ballo: le chiamavano Gaba Girls; erano gli anni 30 e questi oggetti erano dappertutto. Avevano il volto come di bambole, precise nei dettagli e nelle differenze, sia maschi che femmine.
Ho parlato con alcuni di loro: è stata un’esperienza unica: perché vedevano tutto in un’ottica del tutto diversa.
Quegli oggetti erano immersi in una vita che sembrava tale; spesso, mi raccontavano che , nella penombra, e per chi non lo sapeva, erano prese per persone reali, magari “strane”, perché silenti e immobili, e la gente si rivolgeva a loro; e numerosi, un po’ alticci, si liberavano della loro timidezza, e raccontavano le loro storie e segreti.
E assorbivano tutte queste storie, talvolta divertenti, spesso penose , come dei segreti da custodire nel segreto della loro silenziosa essenza.
Gli oggetti più belli erano quelli in legno di fattura americana ; ma quelli meglio conservati erano degli anni 60 fino agli anni 80: erano di plastica dura e avevano più storie e fatti da raccontare: tra cui le differenze enormi della donna di quegli anni e quella di oggi, di cui ho detto prima.
Ma, come ha detto Andrea Bonaveri, l’industriale-artista e creatore di tanti di noi: «Il pittore DeChirico ha visto i manichini mentre guardano nel vuoto; ma sembrano seguire gli sguardi di chi li osserva nel mentre svolgono la loro funzione di “umili” indossatori; ne diventano il loro riflesso inquisitore».
Francesco “Ciccio” Capozzi