Il film: Non aprite quella porta 3D

Non aprite quella porta 3D è il film horror diretto da John Luessenhop, l’ultimo d’una serie di remake che si sono avvicendati nel corso degli anni partendo dal primissimo “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper del 1974, il cui il titolo originale “The Texas chain saw massacre”.
Non è facile ridare nuovo lustro a una saga già riproposta più volte, e per farlo il regista ha pensato bene di ricollegarsi al primo film proponendo un sorta di sequel della storia originale, con scarso successo.
Nella film infatti il regista partendo da un prologo che riprende i fatti avvenuti nel ’74 in una sperduta cittadina del Texas in cui ricompare la famiglia  di cannibali dei Sawyer, tra i quali spicca la figura di Leatherface (faccia di cuoio), il folle maniaco omicida armato di motosega, ritorna poi nel tempo presente per narrare la storia dell’unica discendente della famiglia, salvatasi da quel massacro.
Nel prologo si vede che dopo l’ennesimo sanguinoso delitto plurimo del folle Leatherface, la famiglia Sawyer viene letteralmente sterminata a colpi di fucile da un animato gruppo di cittadini della comunità locale capeggiato dal cinico Burt Hartman, con sommo disappunto dello sceriffo accorso sul luogo per porre sotto arresto l’omicida.
Da quella sorta di spedizione punitiva si salva solo una neonata che viene raccolta da uno dei membri del gruppo di giustizieri che la cresce come figlia propria assieme a sua moglie.
Poi il film torna al tempo presente: la superstite, ormai ragazza adulta, Heather (interpretata da Alexandra Daddario), apprende d’esser una figlia adottiva attraverso una lettera dell’avvocato della defunta nonna Verna Sawyer, di cui aveva sempre ignorato l’esistenza, che la mette al corrente d’essere l’unica erede del suo patrimonio.
Così la ragazza, ignorando la disapprovazione dei genitori adottivi, accompagnata dal suo ragazzo a da una coppia di amici, decide di recarsi nella sperduta cittadina di Newt per riscuotere l’eredità della defunta nonna Verna.
Una volta giunti sul posto ricevono le chiavi di una sontuosa villa isolata della campagna texana, nella quale scopriranno tragicamente che la giovane Heather non è l’unica ad essersi salvata dal massacro della famiglia Sawyer del 1974, ma un altro inquietante superstite si cela nei sotterranei della villa dietro una porta sbarrata!
Nonostante i tentativi di distinguersi da tutti gli altri, “Non aprite quella porta 3D” non si distacca molto dal suo genere, rivelandosi l’ennesimo B-movie di un particolare tipo di horror “metropolitano” reso celebre dalla pellicola originale del ’74 e che ha avuto il suo periodo d’oro negli anni Ottanta. E a molto poco serve la trovata del “3D”, se non a scopi puramente commerciali.
John Luessenhop ha provato a rendere la trama un po’ più originale inserendo l’elemento del “legame di sangue” tra la giovane protagonista e il terribile carnefice, che altri non è che il ritardato mentale della famiglia Sawyer.
Questo elemento poteva rivelarsi alquanto interessante se gestito con più fantasia e maggior introspezione psicologica, in maniera simile al tipico stile narrativo “sclaviano”, quello del celebre fumetto di Dylan Dog.
Ma alla fine il nuovo elemento narrativo si rivela solo un pretesto per rimettere in scena cose già viste e riviste, come le fughe disperate e gli inseguimenti del mostro armato di motosega col volto coperto da una maschera confezionata con la pelle delle proprie vittime.
Il film dunque si rivela per quello che è: l’ennesimo calderone colmo dei tipici stereotipi e banalità di genere, con sangue che scorre a fiumi a discapito degli ottusi protagonisti, tipiche vittime sacrificali dell’horror.
Il tutto confezionato nel classico “pacchetto” sangue, horror e pop-corn per una serata decisamente disimpegnata.
Questo film, così come l’originale capostipite del 1974, pur fingendo di raccontare fatti realmente accaduti, in realtà prende solo un lontano spunto dalla cronaca nera americana, che riguarda la storia di Eduard Gein (Ed Gein), psicopatico omicida considerato il capostipite dei serial killer, che nel 1957 venne arrestato per l’omicidio e occultamento di cadavere di una giovane donna, commessa di una drogheria, in una cittadina dello stato del Wisconsin, nel Nord degli Stati Uniti; ben lontano dunque dall’ambientazione texana della pellicola originale di Tobe Hooper.
Durante la perquisizione della abitazione di Ed Gein, che morì per insufficienza respiratoria nel 1984 durante la detenzione nell’ospedale psichiatrico penitenziale, la polizia locale scoprì in effetti dei particolari raccapriccianti: resti umani sparsi per la casa “lavorati” e utilizzati per macabri usi. La quasi totale maggioranza di quei resti umani non apparteneva però alle sue vittime, ma provenivano  dalle tombe che l’omicida era solito profanare.
Questi sconcertanti fatti di cronaca, tra cui ricordiamo anche il celebre caso di  “Zodiac”, avvenuti nel pieno del “periodo perbenista” della cultura americana degli anni Cinquanta e Sessanta, è un esempio di quanto l’immaginario collettivo d’oltre oceano sia sempre stato sensibilmente influenzato dal macabro, al punto tale da ispirare molti scrittori e registi thriller, come Alfred Hitchcock nel 1960 col suo “Psycho”, il primo ad essersi ispirato alla storia vera di Ed Gein, e più di recente Jonathan Demme con “Il silenzio degli innocenti” (1991),  liberamente ispirati ai romanzi di Robert Bloch (1959) e Thomas Harris (1988).
Ma “Psycho” e “Il silenzio degli innocenti”  sono ovviamente di livello cinematografico decisamente più alto rispetto alla saga di “Non aprite quella porta”.
(Foto: Locandina)

Francesco Bartiromo