Finalmente su una rete nazionale, su Rai 5 è stato trasmesso sabato scorso e in replica oggi, un bellissimo programma dove è stata rappresentata finalmente la lingua napoletana, quella vera, quella fuori dagli stereotipi, dei luoghi comuni, quella concisa, scabra.
Ferdinando, il capolavoro di Annibale Ruccello con le straordinarie Isa Danieli e Alessandra Borgia, i bravissimi Giuliano Amatucci e Adriano Mottola e per la regia televisiva di Giuseppe Bertolucci.
Su queste pagine ho avuto modo di criticare il napoletano che ultimamente sta passando sui media, un napoletano che quasi sempre non corrisponde a ciò che è la vera natura della nostra lingua e che rappresenta sempre una serie di stereotipi e luoghi comuni nei quali la maggior parte di noi napoletani non ci riconosciamo affatto.
Prima tra tutte la lingua, quella lingua piaciona, simpatica, musicale, che ormai nell’immaginario colettivo è la lingua napoletana, una lingua molle.
In Ferdinando mi ha colpito l’uso della lingua, l’uso del napoletano, rappresentato
non come la lingua musicale, quella ruffiana, addolcità, neanche quella volgarizzata della periferia, che ormai ha invaso anche il centro, quella dei neomelodici, la naturale evoluzione della parlata “lazzara”, ma una lingua, naturale e originale: la lingua tosta che ormai nessuno più parla a Napoli.
Ruccello, quasi all’inizio della commedia usa questa espressione:
Nun ‘o voglio sentì ‘o taliano dint’a sta casa
‘sta lengua straniera, barbara … senz’ammore
Quasi come volesse avvertire lo spettatore fin da subito che si troverà immerso in un linguaggio vero, non imbastardito dall’italiano, si troverà a recepire un testo dove ogni parola viene ripulita di ogni incrostazione per rendere l’immagine rappresentata quanto più pura, una operazione possibile solo con una lingua che contiene amore, passione.
Raffaelle La Capria disse che il vero napoletano è una lingua tosta e non molla come quella che hanno fatto conoscere in Italia e nel mondo anche i grandi del teatro e del cinema napoletano.
Una lingua tosta. La lingua usata da Ruccello in Ferdinando è lingua tosta, è il napoletano che ascoltavo da ragazzo nel cortile del palazzo del vicolo Lammatari: conosco quelle sfumature, quelle elisioni, quelle espressioni dure che sottilineano le parole.
La parola nella lingua tosta non è mai ruffiana, non è mai rassicurante, piaciona, come negli ultimi decenni sembra essere diventata la nostra lingua.
Il napoletano oggi è una lingua che si è ammorbidita, e che lentamente si sta inesorabilmente perdendo. Ringrazio autori eccezionali come Annibale Ruccello che nella sua breve ma intensa carriera artistica ha saputo regalarci un po’ della nostra vera lingua, rispolverata dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
E con il napoletano, tra le righe, tocca temi altissimi come quello della necessità di bellezza, di dostoyeskiana memoria:
Me pareva ca ‘o munno se fosse ‘mbruttuto bell’e bbuono
comme si se fosse perza a semmenta d’a bellezza
O anche l’ambiguità della Chiesa e il potere che esercita attraverso la confidenza, la confessione, che lui chiama “pettegolozzo”, ‘o ‘nciucio:
Me sapisseve dicere che d’è ‘a cunfussione si no nu ‘nciucio a ttre: ‘o peccatore, ‘o cunfussore e Dio
Ma l’avvertimento che fa all’inizio, quello di volere usare il napoletano perché è una lingua che contiene l’amore, ll’ammore, attraversa tutto il testo, e ci fa vivere l’amore come qualcosa che sta a metà strada tra qualcosa di sublime, impalpabile, e qualcosa di estremamente materiale, in particolare quando la serva (la brava Alessandra Borgia) confessa a padre Catillo, la sua irrefrenabile voglia carnale:
quanno te veco me sazzio sul’a te guardà
me sento dint’e viscere chella trave ‘ e fuoco
ca spurtosa e nun fa male anzi da gioia
pure si fa strillà e chiagner,
so lacreme ‘e gioia,
so lacreme ‘e piacere
‘O napulitano è lengua tosta, è lengua d’ammore.
(Foto: web)
Mario Scippa