John May è un addetto del Municipio di Londra all’identificazione dei cadaveri senza nome. Viene licenziato, ma vuol risolvere l’ultimo caso.
Uberto Pasolini, italiano trapiantato in Inghilterra e pronipote di Luchino Visconti, è il regista-sceneggiatore e produttore di questo film (UK-ITAL, ‘12). Tra l’altro a lui si deve la produzione e l’ideazione di quel piccolo gioiello che fu Full Monty (‘97) e di un altro intelligente film d’autore, poco apprezzato dal pubblico: Palookaville (‘95).
È un film strano, intrigante e commovente. Costui, un uomo semplice, bassino, tracagnotto e dignitoso, pur lavorando coi morti, ama i vivi: è del tutto dentro alla vita. È spinto in questa volontà da motivazioni che non ci vengono date, ma che si intuiscono; e non riguardano “alti” ideali: quanto piuttosto un genuino e attento interesse per l’umanità che è intorno a noi. E che la concezione solo produttivistica del lavoro, la società e l’ottuso potere burocratico, rappresentato dal vanesio suo capo, vorrebbero annullare.
Egli è sordamente, profondamente intenzionato a dare un senso vivente alla memoria di coloro che se ne sono andati, spesso in solitudine: ed è in tale condizione anche lui. Ma egli riflette su se stesso: stempera il suo malessere nel dare soluzioni a quello degli altri. La sua è una missione.
Il regista tratta con ironico candore questo personaggio. Non è un santino: sembra invece da strisce disegnate il suo porsi sulla strada e in contatto con gli altri. Con quella cartella, volutamente un po’ squalliduccia, che è una propaggine della sua persona: contiene le vite che riesce a recuperare; con quei vestiti da burocrate mezzemaniche, parla con semplicità e senza ipocrisie, e interroga i vivi, per parlare, in realtà, attraverso quelle domande da indagine poliziesca, di ciò che più li angoscia: la morte.
E li avvicina, spingendoli spesso loro malgrado, a interrogarsi su quella, a riflettere, a rincontrare nel ricordo quelle persone che non sono più. Costringendoli, quasi, ad annodare e riannodare legami di vita, di parentela, amicizia; come anche di perdono, di comprensione – laddove hanno speso troppe e inutili energie a chiudersi nel livore e nell’astio.
Come si vede nella bella sequenza collettiva del funerale dell’ultimo suo “cliente”, tutta giocata egregiamente su un solo piano visuale e accompagnata da un uso svelto e in movimento del montaggio, curato da Travis Granger e Kevin Buckley.
E anche il finale, così disorientante almeno all’apparenza, ha un intenso valore di paradigma. Egli è riconciliato con la vita, perché gli è stato riconosciuto che il suo operare è un dono verso se stesso e gli altri: egli ha conosciuto l’amore. Ed è felice. È immerso nella solidarietà di quelle persone che ha salvato dall’oblio.
Non inganni la divina semplicità con cui il film è girato. È uno stile molto raffinato che mette prepotentemente davanti a i nostri occhi una realtà metropolitana scarnificata: come immersa nel silenzio delle solitudini statiche che girano attorno a poche obbligate e ripetitive cose.
Il lavoro della scenografia, curata da una sofisticata artista inglese, Lisa Hall, è stato di una semplicità metafisica. Ben coadiuvato da quello della fotografia di Stefano Falivene.
Un cenno a parte per il protagonista: la faccia di patata di Eddie Marsan si presta magnificamente a questo rivolgersi, “per sottrazione” e senza enfasi alcuna, all’interiorità.
Francesco “Ciccio” Capozzi