Il film: Allacciate le cinture

Allacciate le cinture13 anni fa Antonio ed Elena si sono incontrati: è scoppiato un amore selvaggio, unico, assoluto; a dispetto e contro ogni prevedibile obiezione caratteriale, sociale e culturale. Oggi, quando lei sta affrontando la più dura delle esperienze individuali, è lo stesso amore di prima? O è tutto un sogno?
Con Ferzan Ozpetek, il regista italo-turco di questo film (ITA, ‘14), oltre che sceneggiatore e soggettista insieme allo stesso produttore Gianni Romoli, si è sempre in dubbio se si sia di fronte ad una bieca operazione commerciale intrisa di melo, come un sovrano manipolatore di sentimenti; o una sincera e sentita riflessione sulle dimensioni reali dei sentimenti, una volta che irrompano nelle nostre vite.
Insomma: ci è o ci fa? Questo è, in soldoni, il dilemma che individua questo regista a livello di critica; e anche per questo film.
A me il film è molto piaciuto e mi ha molto convinto. Perché avverto una ricerca nella pura sfera dei sentimenti che propriamente gli appartiene e che egli porta avanti con innegabile coerenza e chiarezza intellettuale. La sua strana provenienza lo aiuta ad essere attento, ma sostanzialmente esterno – benché non estraneo – alla società italiana; alle sue vicissitudini nella storia politico-sociale. Non è subalterno a delle mitizzazioni ideologiche degli anni ‘60: non ha contenuti moralistici su cui organizzare la sua memoria in una specie di tribunale della pippante impotenza politica.
Ozpetek è un autore connesso alla contemporaneità ma in una specifica estensione, quella appunto delle passioni. E lo afferma con assoluta determinazione. Non ha timore di dare vita ad una sfera espressiva che normalmente la critica italiana teme e di cui diffida, perché sostanzialmente accademica e paludata.
Il film si regge sulla eccezionale interpretazione di Kasia Smutniak, l’attrice polacca ormai saldamente e autorevolmente approdata al nostro cinema. È lei  Elena che è presa dal sentimento per lo sfigato, rozzo e un po’ tamarro bisteccone Antonio, Francesco Arca: ne ha avvertito l’anima profonda quando le ha confidato di essere dislessico.
Il fatto che l’attore sia un ex tronista di Uomini e Donne significa semplicemente che il regista nel casting è attento a ciò che per lui funziona e non ha preclusioni dettate da pregiudizi.
La miscela tra i due è perfetta. Lei lo ama, e l’amore è la forza che la rende desiderabile anche sotto chemio, sparuta e calva. Il film è attentamente concentrato su questa sconvolgente consapevolezza che avvolge visualmente e cromaticamente l’intero prodursi della vicenda: la macchina da presa spesso si trova a sviluppare dei movimenti circolari, sapientemente intervallati dal montaggio, che danno l’impressione che l’anima arrendevole, passionaria e forte  di Elena sia entrata come in una spirale senza confini, come il serpente di Lacoonte. È cinema.
Come da tempo, il regista compone gli esterni nel Salento, a Lecce in particolare: il direttore della foto, l’egregio Gian Filippo Corticelli, ne coglie le calde ma non asfissianti sfumature che danno una dimensione incerta  e sospesa tra metropoli attuale e fantastica allocazione  che sa collegarsi al salto temporale per cui dal presente si ritorna al passato.
Un azzardo narrativo, che però al regista serve a stabilire l’assoluta atemporalità della passione; sottolineata anche dalla canzone di Cocciante dei titoli A mano a mano eseguita da Rino Gaetano: benché dell’81, ha una forza e una struggenza senza tempo.

Francesco “Ciccio” Capozzi