Anni ‘60, Polonia profonda, quella delle campagne: Ida, orfana, prima di prendere definitivamente il velo, deve incontrare l’unica sua parente vivente, la zia Wanda, che le svela la verità sulla sua origine.
Ecco Ida, un film (POLON-DANIM, ‘13) da vedere. È diretto da Pawel Pawlikowski, regista polacco ma dalla formazione non solo professionale, ma anche culturale, europea: ha studiato in Germania in Italia e in Inghilterra.
Regista non prolifico ma sempre personale, ha creato questo film usando una tonalità narrativa originale: immerso in un virginale bianco e nero, ha fatto riscoprire il senso del passato in un ampliamento di ciò che il presente tende a smarrire: i contorni delle persone. Quanto più li vediamo ravvicinati, ingranditi, spietatamente nudi, meno ne cogliamo le valenze di interiorità, che risultano ottuse da strati di belletto cinematografico.
Ebbene questo film, con quella lussureggiante anomalia del silenzio e dell’anticromatismo, rispetto a tutti gli standard cui siamo abituati e immersi, ci impone di guardare oltre ciò che nell’immediata banalità sembra che ci appaia. Anzi: proprio sviluppando la grande lezione di K.Th. Dreyer, il regista danese, ci avverte che il mistero si nasconde all’interno della più avvilente quotidianità.
E solo il Bianco&Nero poteva distillare quei sensi di luce, che circonfondono l’avventura in questo mondo di Ida.
A me il film ha ricordato alcune pagine di Ordet. La parola (‘55) di Dreyer, per l’uso della luce indiretto, in cui la luminosità è obliqua, lasciando delle luminescenze in ombra che si concentrano sul gioco attoriale: il danese aveva studiato la composizione dal cinema espressionista tedesco, ma l’aveva elaborata in chiave spirituale personalissima.
Ma anche altre composizioni, ad esempio nelle sequenze delle feste, dove Ida scopre il jazz e l’amore, appaiono come elaborazioni dal cinema di Ermanno Olmi. Maestro che all’interno del boom degli anni ‘60, era attento alle vibrazioni delle anime dei giovani alla vigilia del loro impegno nel mondo del lavoro e della vita.
In questo il lavoro del giovane direttore della fotografia Lukasz Gal (coadiuvato dal veterano Rynzsard Lenczewski) è geniale.
Ma il regista, anche sceneggiatore, insieme alla giovane Rebecca Lenkiewicz, non si è compiaciuto di ciò che citava: egli “usa” questi stilemi in modi autorevolmente lineari per ricostruire la strana e sconvolgente avventura di Ida, che da orfanella si trova a riconoscersi figlia di ebrei salvata dagli stessi assassini della famiglia e consegnata al convento.
Dopo una fase di ricerca e rivolta contro il destino, lei riprende la strada interrotta, presumibilmente verso il Voto. Ma ciò che conta è che lei ha raggiunto un equilibrio con la storia, addirittura: già, perché la Polonia, benché sovietizzata, non ha ancora fatto i conti con l’antisemitismo strisciante, che ancora permea taluni segmenti arretrati della sua società.
Il film queste riflessioni ce le fa approfondendo le dialettiche dei suoi personaggi: di Ida, ma anche e soprattutto di Wanda (la nota in Polonia Agatha Kulesza), la zia. Pur avendo combattuto coi comunisti e diventata una inflessibile procuratrice dei tribunali del regime, ha sviluppato in senso autodisgregativo questa appartenenza negata, inducendola alla disperazione più nera.
È un film del presente che si serve della ricostruzione del passato con un’operazione di memoria lucida e attualizzata: è uno specchio che guarda attraverso noi, nella sua sconvolgente semplicità essenziale.
Francesco “Ciccio” Capozzi