Il film: Mister Morgan

Mister MorganParigi: Matthew è un anziano vedovo americano che non accetta di aver perso l’amatissima moglie. Incontra una giovane istruttrice di ballo.

In questo film (Germ-Bel, ‘13)  vi sono diversi elementi che mi hanno molto colpito. Il primo è l’interpretazione di Michael Caine: del resto è stata universalmente riconosciuta questa qualità, anche dai molti critici che non ne hanno apprezzato altre.

Nonostante la pesantezza dell’assunto iniziale, Sir Michael si muove con una leggerezza incredibile. Egli abita questa disperazione con una determinazione, ma anche una specie di crogiolarsi del cupio dissolvi, per cui assume caratteristiche anche ironiche. È presente ma anche distaccato: è un miracolo di espressività e di sottotoni, usati con parcellizzato ma sapiente mestiere.

Da notare che Sir Caine, figlio della workingclass, è diventato attore raffinato e potente facendo pratica sui palcoscenici e sui set: ma è una delle più affascinanti e caratteristiche presenze della storia del cinema (oh, yeah….).

La regista tedesca, formatasi e attiva anche in USA, Sandra Nettelbeck, ha dichiarato di aver giostrato l’intero film su di lui. E ciò introduce ad un altro fattore su cui riflettere: alla base c’è un romanzo francese, che doveva essere solo sceneggiato dalla regista.

Nonostante ciò che lei stessa ha dichiarato, non è affatto semplice rendere sullo schermo le atmosfere della parola: bisogna inventarsi un universo visuale che emani da sé con i suoi ritmi e cromatismi quell’incanto cui si è soggiaciuti nella lettura.

Che è sempre e solo  un’esperienza individuale: la più solitaria, diceva Calvino. Tradurla in immagini significa, a volte, fare violenza a taluni suoi aspetti: reiventarli del tutto. O, come ha realizzato la regista per questo film, lavorare in sottrazione, affidandosi a tocchi delicati, non invasivi, ma chiari e decisi, se presi uno per uno, ma sinfonici e totalizzanti se li si considera nel loro insieme.  –

La scenografia – curata da Stanislav Reydellet – e la fotografia – diretta da Michael Bertl, che ha già collaborato con la regista  hanno favorito dimensioni spaziali e  quelle tinte, poi rese lentamente sempre più ingrigite, che hanno avuto mani diverse: dall’attuale ospite, chiaramente di gusto femminili, che squillano di un’assenza marcata, a quella della moglie deceduta; e in cui Matthew si aggira come un ospite a malapena tollerato.

Si ha sempre l’impressione di un viaggiare, di uno spostarsi, anche in spazi limitati. Ogni attore entra in una qualche parte, provenendo da altrove: non si fa trovare fermo in sito.

Questo suggerisce unagenerale atmosfera di irrequietezza e di ricerca: ma non di nevrosi. Al contrario: tutto è ordinato e obbedisce a ritmi descriventi profondi conflitti che emergono con movimenti di dialoghi non frettolosi, scanditi con sofferta consapevolezza.

E si ha il tempo di sviluppare le luci e le ombre attorno alle aspettative e alla funzione di ogni personaggio, che risulta piuttosto elaborato. C’è, grazie alla presenza della ragazza, un elemento di chiarezza reciproca: ma, come è stato detto, non c’è una via scontata e banale. Il rapporto, serio e profondo, di Matthew con lei ne dà una caratterizzazione che coinvolge e fa evolvere anche il personaggio del figlio.

La matrice letteraria si nota proprio in questa elaborazione così accurata, pur  ricca di elementi in partenza contraddittori tra loro: alla Henry James.

Il finale è assolutamente laico. Si impone al nostro rispetto per la dignità e la profonda cognizione di un dolore che il tempo non lenisce; e che fa riflettere sull’insussistenza del nostro stesso esistere. Non c’è disperazione gridata: ma addirittura una sorta di gratificante “sentire” che ora si può, i tempi e le eredità di affetti essendo diventati maturi.

Francesco “Ciccio” Capozzi