NAPOLI – «Ho imparato a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo già diversi anni fa. È stata la perdita improvvisa del mio papà la lezione indimenticabile». La giornalista e scrittrice Katiuscia Laneri si racconta a “Lo Speaker” e svela…
Giornalista, videoreporter, produttrice, conduttrice, scrittrice, un vulcano di idee e di energie, si autodefinisce “artigiana dell’informazione” ma lei, nonostante sia brillantemente tutto questo, quale ruolo sottolineerebbe perché comunica più di sé?
A pensarci, sia come videoreporter che come produttrice e conduttrice e scrittrice in fin dei conti ho sempre svolto il ruolo di giornalista. Perciò credo sia quest’ultimo il ruolo che più di tutti gli altri dica molto di me. Già a l’età di 10 anni mi feci notare “professionalmente” con un tema sull’incidente che aveva coinvolto un bus scolastico in gita. Ricordo che, oltre al 10+ sottolineato tre volte, la maestra mi fece alzare in piedi e mi chiese di leggere ad alta voce a tutta la classe il mio scritto, cosa mai avvenuta prima. Insomma, diciamo che condividere e comunicare in modo obiettivo, e soprattutto imparziale, mi è sempre riuscito bene anche se è la strada più tortuosa da percorrere in questo mestiere.
Nel 2009-2010 ha vissuto esperienze da embedded in Libano e in Kosovo e ha pubblicato un romanzo “Viaggio di Vita di Videoreporter”. Chi è l’ embedded e soprattutto cosa significa essere embedded per una donna, dal momento che nella nostra società ci sono poche opportunità per le donne e tutto è ancora molto difficile?
Non c’è differenza di genere nel mondo militare, come non c’era sul tatami quando facevo arti marziali. L’embedded altro non è che un giornalista “intruppato” (traduzione del termine inglese, ndr.), che vive a stretto contatto coi militari al fronte convivendo e condividendo con loro l’intera giornata. Dunque, mi sento di rispondere più sul cosa significhi essere embedded per chi fa giornalismo (uomini e donne pari anche nelle difficoltà del momento). Innanzitutto, si può essere embedded solo dopo un corso di formazione e di addestramento messo a disposizione da SMD e FNSI. È importante sapere come comportarsi, muoversi e a chi rivolgersi per la salvaguardia della propria incolumità ma soprattutto degli uomini e delle donne che ci ospitano e supportano in luoghi pericolosi, dove la tensione è tangibile ed un’occhiata più curiosa può essere fraintesa. Può sembrare assurdo, ma in alcuni luoghi anche una penna a terra, che potrebbe sembrare caduta ad un collega, in realtà può essere l’innesco di un ordigno. Dunque è preferibile lasciarla dov’è e magari cambiare anche strada. Ma sono questioni che si conoscono solo se si viene preparati appositamente.
Quali sono le competenze professionali acquisite e quali caratteristiche personali ha dovuto sviluppare che non le appartenevano ma che l’hanno resa più forte?
Un giornalista embedded deve essere disposto a sacrificare lo scoop per la sicurezza dei colleghi coi quali si instaurano rapporti più profondi e particolari di collaborazione. La caratteristica principale di un embedded, insomma, è l’altruismo. Spesso, io e altri colleghi che come me ci rechiamo in teatri operativi, ci sentiamo considerare coraggiosi per il pericolo che ci troviamo ad affrontare in questi territori. In verità è la più straordinaria prova di civiltà, coesione e collaborazione che un giornalista possa mai fare e che consiglio a tutti gli esordienti perché solo dopo esperienze del genere (ripeto non per il pericolo del territorio) ci si può considerare un “giornalista giornalista”! Non c’è scuola migliore dello stare a stretto contatto, h24 tutti i giorni per un periodo che varia tra i dieci e i venti giorni, in situazioni pericolose e molto difficili, con persone estranee di cultura e testate diverse. Non credo di aver sviluppato delle caratteristiche personali grazie a queste esperienze. Piuttosto è il contrario, se non fosse stato per il mio carattere, oggi non sarei un embedded di fatto. Sono in tanti i colleghi che non hanno poi dato seguito al corso fatto. Ho trovato straordinariamente utile anche il Corso in Cooperazione Civile Militare al quale ho avuto la fortuna di poter accedere (valutato il c.v.) al Centro Alti Studi della Difesa di Roma. Qui, insieme a ufficiali, prefetti ed alti funzionari delle Forze dell’Ordine, ho potuto apprendere quanto è importante il ruolo del giornalista e del comunicatore in momenti e aree di crisi per calamità naturali o atti terroristici. Ho imparato quanto un’opinione priva di fondamento possa creare stupidi allarmismi e gravare ulteriormente su una situazione già difficile ostacolando il lavoro di chi cerca di ristabilire la tranquillità. Ciò vale anche per Terra dei Fuochi. La comunicazione ha sempre uno scopo, soprattutto se lo si fa per mestiere, ed il buon comunicato conosce bene le conseguenze prima ancora di iniziare. Perciò, di fronte all’atteggiamento di alcuni neogiornalisti mi chiedo se sono comunicatori molto scaltri o se semplicemente degli incoscienti.
A lei attribuiscono determinazione e creatività, lei come si definisce come professionista?
Corretta! Almeno cerco di esserlo.
In che modo gestisce e controlla sentimenti come il senso di paura, la precarietà della vita, l’ansia dell’imprevisto in alcune delle circostanze che si vengono a determinare nelle sue missioni?
Sono sentimenti che provo tutti i giorni anche quando non sono in missione! A dire il vero, in missione si è consapevoli dei pericoli che si corrono e con la giusta preparazione, come dicevo sopra, si possono evitare errori fatali. Ma ho imparato a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo già diversi anni fa. È stata la perdita improvvisa del mio papà la lezione indimenticabile.
Parliamo del suo ultimo libro, “Afghan West voci dai villaggi”, scritto in collaborazione con Elisabetta Loi e Samantha Viva”, riportando la sua esperienza da giornalista di guerra, oltre a voler raccontare il processo di transizione che è in atto in Afghanistan che è di assoluta rilevanza storica, qual è il messaggio più incisivo che il mondo deve recepire attraverso questo libro?
Innanzitutto il valore importante che noi italiani abbiamo all’estero. I sacrifici dei nostri soldati e dei loro familiari che vivono mesi di ansia per il pericolo che corrono in un territorio in cui si trovano con l’unico scopo di supportare le popolazioni nel controllo e nella ricostruzione del pace. Diversamente dall’immagine che diffondiamo, quando siamo all’estero ci distinguiamo positivamente e lasciamo il segno. Non a caso l’unica radio al femminile esistente in Afghanistan è stata fondata da una giornalista che ha fatto uno stage in Italia, a Roma, in RAI.
Secondo lei, quanto è difficile coniugare la deontologia professionale con la voglia di raccontare, di sapere quante più informazioni possibili, di scoprire da sola ciò che sta accadendo?
Non ho mai trovato d’ostacolo la deontologia. Sono regole che ci siamo posti noi stessi per farci rispettare e rispettarci a vicenda. Essere eticamente corretti non penalizza assolutamente la voglia di diffondere la verità. Se è questo che si cerca di fare e non invece lo scoop a tutti i costi. La voglia di raccontare (la verità) e la ricerca di quante più informazioni possibili (e non dello scoop) per dare un’informazione quanto più corretta possibile è alla base del mestiere di giornalista. Io ho iniziato la mia carriera così e non mi sono mai sentita ostacolata. Così come, con gentilezza e (forse) anche una fortunata capacità di persuasione, sono riuscita sempre ad ottenere le informazioni che chiedevo. A me nessuno riesce a dire di no perché se lo dice mi deve spiegare il perché e senza accorgersene mi dice pure il fatto!
Adelaide Borrelli