Che i Mondiali di Calcio Brasile 2014 avessero causato non pochi problemi di ordine sociale e politico si era avvertito sin dall’inizio. Il cammino che conduce alla competizione sportiva più attesa dal pubblico già dai primi passi infatti è stato segnato da rivolte e mobilitazioni, ma nessuno avrebbe pronosticato che degenerasse in modo così crudo. O forse sì?
Non è difficile immaginare l’indignazione di una grossa parte del popolo brasiliano se si considera che l’85% della spesa utile alla realizzazione del Mondiale è stato prelevato dai fondi pubblici di una nazione in cui milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà.
«Nao vai ter Copa! La Coppa del Mondo di Calcio non s’ha da fare!» urlavano in Brasile i movimenti sociali e i giovani fedeli ai partiti di sinistra dalla periferia di San Paolo.
Protestavano anche le 1600 famiglie che la notte del 21 gennaio del 2012 erano state sgomberate con l’uso della violenza dalla Polizia militare perché occupavano le terre dell’azienda fallita di uno speculatore finanziario, costringendole a vivere sotto i ponti.
Nel marzo 2013 a Rio de Janeiro, al puro scopo di ripulire i luoghi del Mondiale di calcio, la Fifa ordinò alla comunità degli Indios che vivevano accanto allo Stadio Maracanà di liberare quella zona.
Sempre la Fifa fu la destinataria delle denunce da parte di gente sfrattata dalla propria umile abitazione, nonché di piccoli artigiani impediti ad esercitare il proprio mestiere.
Bisogna considerare che la maggioranza dei fondi d’investimento è stata destinata alla costruzione di stadi e infrastrutture, e spesso senza neanche rispettare i diritti dei lavoratori.
L’intervento della spesa pubblico è stato giustificato con il cosiddetto ritorno d’immagine del Paese della samba, attraverso il rinnovo di tradizionali costruzioni utilizzando tecnologie rigorosamente sostenibili. Pannelli solari, sistemi per il riciclo dell’acqua, spalti e strutture retraibili che avrebbero dovuto convincere gente che muore di fame della positività dell’evento mondiale calcistico.
Non solo una concezione utopica, quindi, bensì una provocazione gratuita, se si considera che in realtà in un solo decennio per alcuni stadi si è speso il doppio di quanto necessario per le elevate spese di manutenzione. Per non trascurare l’incremento dei costi dovuti ai ritardi nella costruzione di infrastrutture: basti pensare che a gennaio del 2013 solo metà dei 30 cantieri previsti in 13 aeroporti nazionali aveva cominciato i lavori. E che nello stesso tempo venivano accantonati molti dei progetti per la mobilità urbana.
Dopo la politica discriminatoria e senza scrupoli attuata nei confronti di coloro che non appartengono alla borghesia, ora che il tempo stringe, anzi non ve n’è più a disposizione per l’impeccabile messa in scena dei Mondiali di calcio, la FIFA è passivamente complice di una politica di quasi sterminio. Si giunge anche a uccidere pur di ripulire i luoghi dell’imminente evento.
Ed ecco allora che la rabbia covata per decenni esplode nell’ ultima settimana dello scorso maggio: organizzati dal movimento Nao Vai Ter Copa, centinaia di Indios assiepati all’esterno dell’Estadio National Manè Garrincha hanno tentato di impedire armati di arco e frecce l’esposizione al pubblico del trofeo mondiale.
Al loro fianco oltre duemila manifestanti civili, spinti dagli stessi sentimenti d’indignazione e disperazione. Tutti violentemente respinti dalle Forze dell’Ordine con lacrimogeni e manganelli.
Uno scenario di guerra quello mostrato dai media al mondo intero, lo stesso che incredulo osserva, ma attende trepidante il famoso evento calcistico.
Sin dal 2008 per affrontare il problema sicurezza in Brasile, dove si registrano 50.000 omicidi all’anno, il governo ha creato a Rio delle unità di Polizia di pacificazione per tenere sotto controllo le favelas. Una di queste, tra le più estese, il Complexo da Mare, fino al termine dei Mondiali sarà presieduto da quasi 3000 agenti federali.
Un’iniziativa che rischia ancora una volta di violare i diritti umani, dal momento che penalizzerà gravemente i poveri che saranno gestiti da Forze dell’Ordine che non hanno certamente i requisiti giusti e l’esperienza per rapportarsi a loro.
Se le Nazioni partecipanti ancora non hanno scelto di ritirarsi dal Mondiale di fronte agli avvenimenti sin ora accaduti, figurarsi cosa conta se l’Amazzonia, il polmone del pianeta, ha perso 230 milioni di ettari di alberi, esclusivamente a vantaggio del business economico degli eredi dei colonizzatori.
In fondo … Mas què nada. L’importante è giocare.
Nina Panariello