Nel Québec canadese Gabrielle, affetta da una sindrome leggera di ritardo mentale, vuole vivere la sua storia d’amore, nonostante l’opposizione della madre di lui, con Martin, che ha lo stesso problema, nell’accogliente casa-famiglia dove sono ospitati.
Ed è la musica a offrire un momento di forte condivisione sociale. Tradizionalmente, è d’estate che vengono proposti, nelle sale pressoché deserte, prodotti interessanti, anche se non di grande richiamo.
È il caso di questo film (CAN, ‘13), che, presentato al Festival di Locarno del ‘13, vi ha ottenuto il Premio del Pubblico. La regista è la giovane Louise Archanbault, che ne ha scritto anche la sceneggiatura, ed è alla sua seconda opera: la prima è stata Familia (‘05), anch’ essa presentata a Locarno, e premiata al Toronto International Film Festival, giudicata bene dalla critica e dai pubblici che l’hanno vista, che non è mai giunta in Italia. Non ha trovato quella Distribuzione coraggiosa, come le Officine Ubu per la presente, che investisse su di lei.
Gabrielle è un film toccante e delicato. Esplora il malessere che viene da un handicap di tipo mentale dagli occhi di coloro che lo possiedono: anzi, stabilisce il centro del film su questa lunghezza di sguardo.
E non è solo il rapporto col ragazzo, Martin, ma anche quelli con la sua amatissima sorella, Sophie, e con sua madre, ad essere analizzati. La regista con intelligenza e senza alcun senso di faciloneria buonista, distingue nettamente i vari livelli di coinvolgimento, delineando, rapporto per rapporto, cosa attiene, realmente, alla generosità e responsabilità affettiva con cui ci si fa carico delle difficoltà di che è più debole rispetto alla vita, e/o agli alibi, le scappatoie esistenziali dalle proprie personali responsabilitàsentimentali, che su di esso, coscientemente o inconsapevolmente, si costruiscono.
È il caso di Sophie che ha resistenze a raggiungere il suo fidanzato in India, e impegnarsi con lui, e, in un qualche modo, “usa” la sua assoluta disponibilità con la sorella, come alibi di questa incertezza.
Solo una regista poteva trovare una vibrazione di scrittura così raffinata, lucida e precisa; ma nello stesso tempo così sensibile e coinvolgente. E non ha paura di lasciarsi commuovere: di piangere e di mostrare la propria fragilità.
Più complesso è il rapporto con le madri: quella di Gabrielle, pur amandola, vuole vivere la sua vita, e ha scelto di seguirla, ma affidandola ad un centro specializzato, che poteva farsene carico istituzionalmente.
Quella di Martin, invece, si sovraccarica di responsabilità e di controlli e divieti, lo opprime in nome della sua paura.
E comunque l’amore vincerà, in barba ad ogni prescrizione o divieto.
Molto interessante è l’analisi di Gabrielle, che non è un’attrice, ma realmente affetta dalla Sindrome di Williams. La regista impone la sua personalità, affettuosa, aperta, vitale in tutti gli spazi visuali in cui è presente; e che guida e caratterizza da professionista consumata.
Ma è lo scandito, avvolgente e flessuoso gioco di montaggio, di Richard Comeau, bravo e scelto da Ridley e Tony Scott per I pilastri della terra, tutto imperniato su di lei, sul suo “esserci” e occupare il mondo, che la caratterizza cinematograficamente.
Si ha l’impressione di un cinema-documento, ma è una modalità espressiva scelta e portata avanti con rigore e piena consapevolezza di stile. Si vede nella sequenza in cui “si perde” nella città, impotente ad assumere un controllo della sua esistenza: la regista le è vicina e “chiude” sulla sua immagine lontana e sfocata, con una partecipe ma non mistificata e obiettiva descrittività.
Ed è questa strana miscela di documentarietà clinica e slanci di grande poeticità che descrive il mondo di Gabrielle, e il suo solare, entusiastico, rivitalizzante rapporto con la musica corale, col gruppo LesMuses, realmente esistente; come assai famoso e molto impegnato con questi ragazzi è il cantante québéquois Michel Charlebois.
Francesco “Ciccio” Capozzi