La bruciante eliminazione al primo turno della nostra squadra nazionale al Campionato mondiale di calcio ha lasciato un sapore molto amaro in bocca.
Molto si è parlato in queste ultime ore e molto ancora si parlerà delle varie cause, dell’arbitraggio scandaloso, degli errori in campo di alcuni giocatori, delle responsabilità del dimissionario CT Prandelli, e quant’altro.
Ma al di là delle tante polemiche – immancabili in casi come questi – un primo dato che emerge e su cui va fatta una profonda riflessione è la crisi esistenziale che sta vivendo il calcio italiano negli ultimi anni, segnato oramai da una lenta ma inesorabile involuzione.
Sembra infatti che il vero calcio italiano si sia fermato al 2006, alla trionfale impresa di Berlino di Cannavaro, Totti, Inzaghi, Del Piero, Buffon, Barzagli e compagni.
Era una Nazionale di calcio in cui militava una intera generazione di campioni di cui solo pochi superstiti, tra cui capitan Gigi Buffon, calcano ancora i campi di calcio, e qualcuno non ancora per molto, dal momento che Andrea Pirlo ha subito annunciato che questa contro l’Uruguay è stata la sua ultima partita in Nazionale.
Probabilmente è proprio questo il punto cruciale della questione, perché questa Nazionale dalle tante aspettative eliminata dall’Uruguay era sì piena di talenti, dove qualcuno veniva definito fuoriclasse, ma povera di veri campioni.
Infatti la differenza tra campione e fuoriclasse è sottile, ma determinate, perché il fuoriclasse che nasce di per sé con particolari doti; il campione invece deve conquistarsi il titolo sul campo. Spesso non è tanto questione di classe e bravura, ma piuttosto di fatica, umiltà, sudore, coraggio.
Uno sportivo per diventare campione deve dimostrare continuamente la sua bravura sul campo, al di là delle doti tecniche che lo contraddistinguono come fuoriclasse, appunto perché si diventa campioni grazie ai risultati raggiunti, i trofei conquistati, la devozione verso la propria squadra e verso i propri tifosi. E non sempre un fuoriclasse riesce a diventare un campione, soprattutto se non sa a mettere la sua classe al servizio della propria squadra.
Ebbene, negli ultimi anni nel mondo del calcio, abbiam visto troppi fuoriclasse incompiuti, che nonostante le tante aspettative sulle loro doti e capacità non sono riusciti ad incidere e a ottenere risultati importanti.
Probabilmente perché si è trattato di presunti fuoriclasse che giocano per sé stessi: il loro egocentrismo non permette di integrarsi col resto del gruppo. E quando un fuoriclasse non riesce a mettere la sua classe al servizio della propria squadra la classe è fine a se stessa, si rivela inconcludente.
Un primo esempio lo possiamo riscontrare facilmente in Mario Balotelli, il bomber dalla nostra nazionale in cui il CT Prandelli ha sempre riposto tutta la sua fiducia e tutta le sue speranza.
Ebbene Mario, a parte qualche occasionale goal determinante – come quello segnato contro la nazionale inglese nella prima partita del girone – ha dimostrato un rendimento altalenante, fatto di rari guizzi vincenti e molte altre prestazioni opache.
È un ragazzo ancora giovane su cui vengono probabilmente caricate troppe responsabilità, un calciatore dall’indiscusso talento, ma che rimane un grande incompiuto, appunto perché non ha ancora imparato a mettere il suo talento a completa disposizione della sua squadra, qualunque delle squadre di calcio in cui ha militato fin ora.
Mario Balotelli è un ragazzo tormentato dal suo stesso ingombrante personaggio che egli stesso e la stampa insieme hanno contribuito a costruire. È un calciatore che sente troppo spesso il peso delle troppe responsabilità che gli vengono caricate addosso ad ogni partita. Gioca per sé stesso più che per la propria squadra, e probabilmente è stata proprio questa mancanza d’umiltà oltre che lo scarso attaccamento alla maglia ad avergli impedito di diventare un vero campione.
Campioni invece lo sono stati Alessandro Del Piero, Francesco Totti, Fabio Cannavaro, Filippo Inzaghi e Gigi Buffon che indipendentemente dalle loro grandi capacità hanno sempre dimostrato un forte attaccamento alla propria maglia e hanno servito la loro causa sempre con umiltà e spirito di sacrificio, riuscendo così a conquistare la Coppa del Mondo nel 2006, oltre ad aver vinto molto anche nei rispettivi club, soprattutto Del Piero e Inzaghi, con tanti scudetti vinti con la Juventus e il Milan.
Potenziale campione sarebbe potuto diventarlo anche lo sfortunato Beppe “Pipito” Rossi se non fosse stato fermato dall’ultimo infortunio, dopo che era riuscito a rimettersi in campo da un precedente e traumatico incidente durato quasi un anno, ritornando a segnale una valanga di goal con la Fiorentina, quando tutti lo davano già per finito. E altrettanto avrebbe potuta fare con l’attuale Nazionale di calcio se il CT avesse avuto un po’ più di fiducia nel suo recupero e nella sua voglia di rivincita.
Un altro grande incompiuto è il nostro Antonio Cassano, calciatore dalle grandi doti ma che ha forse capito troppo tardi, ad una età troppo avanzata, che andava messa la testa a posto per fare bene nel mondo del calcio, dopo una giovinezza calcistica segnata da troppi colpi di testa che gli hanno causato numerosi trasferimenti da una squadre all’altra, fattore che gli ha impedito di raggiungere traguardi importanti.
È proprio questa la differenza fondamentale: fuoriclasse lo si è dalla nascita, ma campioni si diventa attraverso la fatica, il sudore, l’umiltà, la determinazione. Non sempre chi nasce fuoriclasse riesce anche a diventare un campione se non impara e metter la sua classe al servizio della squadra, così come non tutti quelli che diventano campioni sono necessariamente dei fuoriclasse dai piedi fatati.
La differenza sta proprio nelle personali motivazioni, nella determinazione e nell’atteggiamento in campo, cosa che certi presunti fuoriclasse di oggi non riescono a dimostrare.
Il calcio è un gioco di squadra, se si gioca per sé stessi non si va da nessuna parte.
Anche Diego Armando Maradona era un fuoriclasse dal carattere difficile, genio e sregolatezza, ma in campo c’era sempre il genio, la sregolatezza rimaneva fuori dal campo, nella sua vita privata: in campo era un leader, attaccato alla sua maglia e ai suoi compagni di squadra.
I pseudofuoriclasse di oggi hanno invece ancora molto da imparare, imprigionati dalle loro maschere di personaggi mediatici troppo presi dal gossip e dai social network per riuscire a concentrarsi con la dovuta devozione alla loro missione sportiva.
Il calcio italiano si sta dunque dimostrando oramai troppo povero di veri campioni e troppo pieno di presunti tali, viziati e drogati di fama e notorietà, ancor prima – e forse mai – di riuscire a diventare veri campioni.
Francesco Bartiromo