In piazza San Domenico Maggiore, adiacente al palazzo dei de Sangro duchi di Vietri, poi palazzo Saluzzo di Corigliano e a quello dei de Sangro di Casacalenda e Campolieto, nel 1580 fu fatta costruire ad angolo preciso della chiesa la dimora dei de Sangro principi di Sansevero da Giovan Francesco, altresì duca di Torremaggiore e marchese di Castelnuovo, patrizio di Foggia e di Napoli. Nel 1590 si costruì nel giardino laterale per conto del patriarca don Alessandro de Sangro la chiesa della Pietatella per un voto personale.
Come era costume di molti ricchi aristocratici di Napoli, i principi di Sansevero erano soliti fittare alcuni appartamenti nei piani superiori del palazzo ad altre famiglie nobili; cosi all’ultimo piano dell’ala sinistra nel 1585 un vasto appartamento venne dato a don Carlo Gesualdo, figlio del principe Fabrizio e di Geronima Borromeo, sorella del cardinale Carlo divenuto poi santo, e nipote del cardinale Alfonso, arcivescovo di Napoli, con regolare contratto depositato all’archivio storico del Banco di Napoli.
Il noto poeta e madrigalista Carlo dei Gesualdo, illustre famiglia patrizia, signori di Caggiano e di altri feudi, nel 1586 aveva sposato con fastoso matrimonio in San Domenico Maggiore la bellissima donna Maria d’Avalos dei marchesi di Pescara.
Maria nacque a Napoli nel 1560 da don Carlo principe di Montesarchio e da donna Lucrezia Gesualdo.
Quasi trentenne all’epoca del matrimonio, Maria era dunque cugina di Carlo; già vedova di Federico Carafa marchese di San Lucido, si risposò con don Giulio Alfonso Gioemi, figlio del principe di Giulianova, e nel 1585 rimase nuovamente vedova dopo due anni.
Due matrimoni e due vedovanze: il popolo napoletano cominciò a mormorare che entrambi i mariti fossero morti per consunzione, data la sfrenata sensualità della giovane, bella, bruna Maria che faceva sognare tutti gli uomini …
Maria si unì al cugino Carlo, colto e raffinato musicista, ma coniuge freddo, poco sensuale, ma nel 1590, al ballo di Capodanno di Palazzo Sansevero, conobbe il bellissimo Fabrizio Carafa d’Andria, nato a Napoli nel 1560, nipote del priore d’Ungheria il generale don Vincenzo, sposato a sua volta dal 1579 con donna Maria Carafa di Stigliano e padre di 6 figlie.
Scoppiò la scintilla amorosa; il 13 febbraio 1590 Fabrizio e Maria s’incontrarono nottetempo nel bellissimo giardino della villa di Chiaia di don Garzia di Toledo, complice la moglie del giardiniere, che in seguito si prese in cura il bambino che nacque dalla loro relazione.
I due amanti poi continuarono ad incontrasi in casa Gesualdo, approfittando del principe Carlo che, ignaro, componeva e provava musiche per tutta la notte.
Tutta la nobiltà, non solo il popolo, era allibita per lo scandalo. Il 18 settembre 1590 il cardinale decano di Napoli Alfonso Gesualdo ebbe un colloquio segreto con il priore d’Ungheria il generale don Vincenzo Carafa, durante il quale decisero di far allontanare i due amanti.
Fabrizio, innamoratissimo di Maria, non diede però ascolto alle forti motivazioni che gli riferì lo zio Vincenzo, che si vide costretto a dire al duca Giovan Francesco de Sangro, proprietario dell’appartamento dove continuava la tresca, di segnalare la vicenda al vicerè don Juan Zunica conte di Miranda. Era il 29 settembre; il giorno dopo il vicerè ordinò a Fabrizio Carafa di rimanere confinato per un anno nei suoi feudi di Andria con tutta la famiglia per mettere a tacere lo scandalo.
Il 24 ottobre di quello stesso anno, Alfonso Gesualdo, zio del principe Carlo, respinto più volte dalla bella Maria d’Avalos, per vendicarsi della donna raccontò a suo nipote della tresca. Organizzarono dunque insieme un’imboscata per catturare l’amante della moglie proprio quando si trovava a Palazzo Sansevero.
Un servo fedelissimo dei Gesualdo venne incaricato di recarsi ad Andria da Fabrizio Carafa con una falsa lettera di Maria d’Avalos nella quale era scritto che il marito Carlo sarebbe partito per tre giorni per una lunga battuta di caccia agli Astroni.
Fabrizio, credendo alla veridicità della missiva, accompagnato solo da un giovane servo, inforcò il cavallo e partì da Andria, e girando intorno a Castel del Monte prese la via per Avellino e Nola, superò Casalnuovo e all’alba del 26 ottobre entrò a Napoli per il ponte di Casanova; prese alloggio alla taverna del Cerriglio e la sera successiva ripartì con il servo per Palazzo Sansevero. Usando la chiave datagli mesi prima da Maria, a mezzanotte entrò nel Palazzo e si ricongiunse alla sua amante.
All’una e quarantacinque il marito Carlo Gesualdo entrò in casa con una scorta di 50 parenti a cavallo tra Carafa, Borromeo, Acquaviva, 8 servi armati di alabarde e spadoni e 14 armigeri suoi feudali con archibugi.
Il servetto di Fabrizio messo di guardia sulla scalinata di San Domenico Maggiore era stato sorpreso a tradimento e sgozzato dai servi di Gesualdo; nel quarto d’ora successivo gli uomini di Carlo si assicurarono il controllo di tutti gli accessi del palazzo.
Poco dopo il drappello armato salì in silenzio lo scalone arrivando all’ultimo piano, a casa Gesualdo; colta nel sonno con una pugnalata la fida cameriera Laura Scala, il principe Carlo aprì la porta della sua camera da letto con un calcio e sorprese gli amanti che dormivano. Fabrizio tentò di afferrare la sua spada per difendersi, ma i servi lo ferirono gravemente con archibugi, alabarde, picche.
Non solo, due servi uccisero il piccolo di sette mesi nato dal loro amore sbattendogli la testa contro la porta; poi ficcarono il corpicino in un sacco. In un parossismo di ferocia, altri servi tagliarono i testicoli al morente Fabrizio. Poi alle 3.30 del 27 ottobre lo gettarono per le scale.
Si avventarono dunque su Maria, ferendola solo leggermente con gli archibugi, i calci dei fucili, le picche e le alabarde alle spalle, ai fianchi e alle gambe. Poi il principe Carlo, attorniato dai parenti, la scaraventò sul letto con un colpo di sciabola a un braccio e la finì personalmente con 6 pugnalate al ventre; la fece poi buttare giù dalle scale dai suoi servi.
Al portone di Palazzo Sansevero venne subito affisso un suo scritto in cui spiegava che era stato compiuto un delitto d’onore causato dall’adulterio di sua moglie.
Il principe partì subito dopo con la sua imponente scorta di per il suo feudo di Gesualdo, chiedendo asilo religioso al convento del paese.
Orrore nell’orrore: accorsa sulla scena del crimine, la polizia vicereale sorprese un frate domenicano mentre violentava il cadavere di Maria d’Avalos sullo scalone del Palazzo; l’immondo uomo venne catturato, fustigato a sangue e quindi subì la tortura del lardo bollente sui genitali; il giorno dopo venne impiccato a piazza Mercato.
I miseri resti dei due uccisi vennero restituiti alle rispettive potenti famiglie che fecero celebrare funerali privati e molto frettolosi.
A Gesualdo, forse preso dal bisogno di espiare le sue colpe tanto feroci, il principe Carlo fece abbellire e restaurare il convento e due chiese; poi sentì il bisogno di allontanarsi e partì per Ferrara, dove offrì i suoi servigi di poeta e di musicista al duca Alfonso II d’Este, sposandone un anno dopo la sorella donna Eleonora, da cui ebbe un figlio, Emmanuele, morto prematuramente. Senza eredi diretti maschi il casato di Gesuldo si estinse con Carlo.
Dal 31 ottobre 1590, giorno dell’efferato duplice delitto passionale, i servi di Palazzo Sansevero cominciarono a diffondere la voce che i due fantasmi di Fabrizio e Maria apparivano nelle notti di luna piena e, mentre si amavano, venivano inseguiti da fantasmi armati.
L’ultimo piano rimase sfitto per un decennio; poi vi alloggiò il pittore e scultore Belisario Corenzio, al servizio dei principi di Sansevero.
Più tardi, nel 1848, vi abitò il cavalier Pecchenedda , direttore della polizia borbonica, aiutante del marchese del Carretto, di trista fama; nel 1888, vi andò ad abitare don Pasquale Del Pezzo, duca di Campodisola, professore universitario e preside di Matematica e Rettore Magnifico dell’Università di Napoli, senatore del regno d’Italia, massone e sindaco di Napoli dal 1914 al 1916.
Qui vi morì la prima moglie di Del Pezzo, una bella svedese, si dice per lo spavento causato dal fantasma di Corenzio che gridava nella notte chiedendo che fine avessero fatto i suoi affreschi dell’appartamento sottostante, detto La Fenice, scomparsi per l’allagamento causato dall’Acquedotto di Napoli del 1888. Era terrorizzata anche dai sospiri prima e dalle urla poi di Fabrizio e Maria.
Del Pezzo si risposò con una seconda svedese, che raccontò di aver visto addirittura il fantasma di don Raimondo de Sangro entrare dal portone con una carrozza con cavalli neri, anch’essi spiriti.
Pasquale Del Pezzo a sua volta raccontò nel 1935 di aver visto il fantasma di un giovane nobile napoletano, un appassionato di poesia e di alchimia, un certo Ferdinando de Sangro, reincarnazione precedente di Raimondo, che gli predisse la sua morte.
Nel 1958 in una seduta spiritica a piano terra dell’ala sinistra del palazzo, un gruppo di ricercatori napoletani con catena medianica evocò i fantasmi che si diceva dimorassero lì, compreso quello di Pasquale Del Pezzo …
Un allievo di quest’ultimo, lo studioso Antonio Ariano, apprese che Raimondo de Sangro morto nel 1771 si era reincarnato nel suo pronipote diretto, il principe Michele, nato nel 1824 in Puglia dal principe Gerardo, e divenuto famoso scienziato, agronomo, botanico e ingegnere, morto nel 1891, 120 anni dopo il suo avo Raimondo, e seppellito in Torremaggiore, e che si era di nuovo reincarnato in Napoli pochi anni prima …
Michele Di Iorio