Jafaar, povero pescatore palestinese di Gaza, con la sua rete solleva dal mare un maiale. Per lui è solo fonte di problemi, essendo animale impuro sia per i musulmani che per gli israeliani occupanti.
È un film (FRAN-GERM-BEL, ‘11) strano e, a suo modo, originale. Prodotto qualche anno fa solo quest’anno, grazie alla “solita” distribuzione indipendente, la Parthénos, che osa rischiare su titoli innovativi, è uscito nelle sale.
Chiaramente, il maiale è un pretesto narrativo, di tipo favolistico: ma è anche la metafora dell’Occidente. E di tutto ciò che mette in luce l’assurdità della situazione in Palestina, in cui si vive e si sopravvive in una situazione di né pace né guerra, in cui l’unico a rimetterci veramente è il popolo palestinese, che in Cisgiordania e soprattutto nella Striscia di Gaza, è costretto a vivere in condizioni di pura e stentata sopravvivenza.
Accerchiato com’è, tra l’intolleranza politico-religiosa di Hamàs, che non riconosce il diritto di Israele all’esistenza, e la politica simmetricamente intollerante dell’occupante militare israeliano, che, a sua volta, non riconosce alcun diritto ai palestinesi.
Jafaar, tra l’altro, è anche il nome del povero pescatore che in Le Mille e una notte trova la lampada del Genio. Ma, a parte il fatto che i suoi desideri non sono destinati ad avverarsi – almeno nella sfera della realtà – l’andamento narrativo è da favola: ma anche condito di ironia.
Tuttavia, benché prevalga l’aspetto talvolta perfino comico-grottesco, la situazione è descritta con assoluta veridicità. La precarietà delle stesse situazioni fisiche, in cui tutto è scarrupato per i continui bombardamenti; ma lo stesso vi si cerca di sopravvivere.
Ad esempio, Jafaar scosta la tenda del soggiorno, e si scopre che la finestra non esiste più: la suo posto c’è il foro lasciato da un bombardamento. E ciò è “normale”, fa parte dell’ovvio e abitudinario panorama quotidiano.O come la convivenza col soldato israeliano occupante il tetto della casa di Jafaar che condivide con la moglie d l’interesse per la telenovela brasiliana, seguita anche a Tel Aviv.
È uno scenario sociale, incredibile altrove, con cui la gente convive. E questa dimensione ha sapore di sarcasmo.
Così anche la coralità dei personaggi e delle situazioni è ben colta: come il rapporto tra Jafaar e l’amico barbiere, o tra lui è gli estremisti Jihadisti, il cui capo se la passa assai meglio dei suoi correligionari, tra vari lussi domestici.
La sceneggiatura, dello stesso regista Sylvain Estibal, è molto attenta a cogliere queste note di malessere in una dimensione originale: molto aiuta la faccia dell’attore protagonista, Sasson Gabai. Sa passare con disinvoltura dalla farsa fisico-facciale all’impassibilità di pura marca keatoniana con cui mette in risalto comicamente il suo ritrovarsi casuale e involontario kamikaze a cospetto degli estremisti islamici; o di fronte al tifo collettivo, con cui i fan gli chiedono un autografo, essendo la star “martire” sopravvissuta.
Ma anche gli ebrei occupanti sono colti nelle loro contraddizioni. La più immune dal contagio antipalestinese, la più provvista di buonsenso, è proprio la ragazza che aiuta il suo “nemico giurato” a trarsi d’impaccio.
Ma colui che ha fatto la differenza, direi proprio stilistica, del film è il suo direttore della fotografia RomainWinding, figlio di Andréas W., un altro grande della fotografia d’oltralpe, imparentato con il regista Jean Rénoir, figlio del grande pittore Pierre-Auguste Rénoir. Egli ha saputo individuare, e mantenere per la durata del film, perfino in quelle sequenze sul mare; e perfino nei comici conflitti col simpatico e innocente maiale, la giusta gradazione di quel croma polveroso che avvolge, come una cappa, l’intera Gaza.
Questa definizione ci dà, più di ogni chiacchiera, quella sensazione di povertà condivisa e di pressione da accerchiamento che caratterizza ambientalmente la scenografia del film.
Francesco “Ciccio” Capozzi