L’Europa è in fermento e Palermo il 12 gennaio 1848 insorge chiedendo Costituzione e Regno separato al buon re Ferdinando II di Borbone.
I moti, fomentati da agenti dell’Inghilterra, ferita nel suo orgoglio nel 1840 nella questione degli zolfi di Sicilia brillantemente affrontata dal risoluto e convinto nazionalista sovrano borbonico.
La sorda agitazione separatista e indipendentista siciliana venne alimentata non solo dai servizi segreti ma anche dalla massoneria egizia britannica del Memphis.
La rivolta palermitana, nonostante le innovazioni amministrative per provincie, comuni siciliani attuate dal re con due decreti del 18 gennaio, era dilagata in Cilento e il 26 si diffuse anche a Messina.
Il governo provvisorio di Palermo respinse una tregua da parte dei governativi regi il 24 gennaio per discutere un eventuale accordo bonario tra le parti.
Il 27 gennaio a Napoli in una dimostrazione popolare liberale una folla riparata da ombrelli tricolori sotto la pioggia scrosciante chiese a gran voce la Costituzione.
Ferdinando II, benché impegnato contro gli Austriaci sul fronte risorgimentale della I guerra d’Indipendenza, agì da moderato. Infatti il 24 gennaio aveva già nominato un governo filoliberale e il 29 promise la Costituzione, che poi concesse il 7 febbraio con promulgazione ufficiale del 10 febbraio, accanto alla libertà di stampa e ad altre importanti concessioni, come quella del Parlamento nazionale.
Molti liberali italiani salutarono re Ferdinando come futuro re d’Italia, sovrano di uno stato unitario e non più confederale.
Il sovrano del Regno delle Due Sicilie preso dall’entusiasmo ebbe ad affermare nei corridoi della diplomazia internazionale che se non fosse nato re sarebbe stato il più repubblicano d’Europa.
Nonostante tutto il 27 aprile il governo provvisorio palermitano dichiarò decaduta la sovranità dei Borbone sulla Sicilia. Si pensò di nominare re il principe Carlo, fratello di Ferdinando II, in esilio dal 1835 a Londra, o Ferdinando Maria Alberto duca di Genova, della famiglia piemontese dei Savoia.
Il re seguiva preoccupato l’evoluzione delle rivolte nel Regno delle Due Sicilie e contemporaneamente le vicende alterne della guerra d’Indipendenza della penisola italica.
Pur confortato dall’eroismo delle sue truppe sul fronte risorgimentale, mentre discuteva sulla forma della Costituzione, sul giuramento dei deputati e dell’Assemblea Costituente, Ferdinando vide con ansia che in città continuavano a sorgere barricate nelle strade in un’aria di tumulto popolare.
Sui forti della capitale la sera del 14 maggio sventolò la bandiera gialla di stato d’allarme lieve.
Il re veniva costantemente informato: barricate a San Nicola alla carità, Santa Brigida, a San Ferdinando, a San Carlo all’Arena, all’Infrascata, alla Riviera di Chiaia, a Monteoliveto, a santa Teresa, davanti Castel Capuano, alle chiese di Agnone e di Santa Maria della Pace.
Un totale di 62 barricate, di cui 17 solo in via Toledo, erette da civili armati usando materassi, mobilio, legname, carrozze sventrate, sassi, sacchi. Le guardie nazionali schierate e in armi attendevano gli ordini tra le grida che invocavano la Costituzione, la libertà, l’unita d’Italia, il giuramento, perfino la repubblica …
Alle ore 2 della notte del 15 maggio 1848 giunse al galoppo alla Reggia, dalla sua casa di Santa Lucia, il generale di brigata Nunziante per conferire con il re.
Alle 3 fu convocato il Consiglio straordinario di Stato maggiore dell’Esercito. Oltre a Nunziante e al re, presenziarono il maresciallo di campo Gregorio Lubrano, il generale di brigata Giovanni Statella, il generale di brigata Eugenio de Stockalper de La Tour e il tenente generale Ischitella, comandante le armi della città e provincia.
Alle 4,30 il re convocò gli ufficiali superiori della Guardia nazionale della capitale ed espresse loro il proprio disappunto gridando: «Ma ‘sti pazze che vonno fà? Scennìte ‘mmiezzo ‘a strada e vedite ‘e non fà succedere guaje!»
Gli ufficiali della Guardia nazionale e alcune guardie reali disarmate cercarono così di convincere i tumultuanti a desistere, a sgombrare le strade e tornare con calma a casa, attendendo la conclusione dei lavori del Parlamento per il mattino dopo.
Alle ore 5,05 il re venne informato che non erano riusciti a calmare i manifestanti.
Alle ore 8,10 del 15 maggio, il ministro segretario di Stato Ferdinando Troia annunciò la pubblicazione del proclama reale sulla formula del giuramento alla Costituzione da parte del benevolo re Ferdinando II, avvertendo che le barricate sarebbero state abbattute senza sparare.
Ufficiali della Guardia nazionale vennero inviati a leggere le copie del proclama reale davanti ai trinceramenti dei rivoltosi al fine di riportare la calma e ridurre alla ragione i manifestanti, confusi da le tante voci contraddittorie che giravano in quei giorni.
Alle ore 8,14 una deputazione di deputati parlamentari si recò in udienza dal re per chiedergli di ordinare di non sparare sulle barricate. Dopo di che discussero insieme alla Stato Maggiore i termini della pacificazione generale.
Alle ore 9 in punto arrivò dal re alla reggia il generale Michele Carrascosa che lo informò alla presenza del tenente generale Ischitella e degli altri ufficiali superiori che le truppe erano pronte a ristabilire l’ordine pubblico: pronti due battaglioni della Guardia Reale davanti la Reggia, un battaglione del II reggimento dei Granatieri dal colbak di pelo. il battaglione Zappatori e il I reggimento Ussari.
A piazza Castello vi erano due squadroni di Lancieri del I reggimento Ferdinando e quattro compagnie del Genio in rinforzo; a piazza Mercatello, l’attuale piazza Dante, era attestato lo squadrone dei Dragoni del reggimento Borbone con due cannoni; alla Vicaria la compagnia scelta degli Svizzeri; a piazza Mercato il II reggimento Principe dei Lancieri: ai Granili il I reggimento dei Granatieri di linea ai; a San Giovanni a Carbonara il II reggimento svizzero, il II reggimento svizzero a San Domenico Soriano e a San Potito, ai SS Apostoli il IV reggimento svizzero con i cannoni.
In totale la guarnigione mobile disponeva di 12mila militari, 22 cannoni campali mobili e di altri 6mila uomini tra gendarmi, doganieri, pompieri e truppe di guarnigione dei forti. Altri 18mila soldati erano attesi al Campo di Marte a Capodichino.
I forti di Napoli issarono la bandiera verde di preallarme al posto di quella gialla, che richiamava all’erta e ai loro posti tutti gli uomini, e così venne acceso il semaforo verde per la flotta che manovrava presso i porti di Castellamare di Stabia, Baia, Portici, Ischia, Procida, Capri, Sorrento.
I generali consigliarono il re di ritirarsi subito a Castel Sant’Elmo con la famiglia, corte, reale, ambasciatori esteri e di far ripiegare le truppe al Campo di Marte per prudenza, Ma Ferdinando non fu d’accordo e rimase nella Reggia. Anzi, preoccupato esortò ancora una volta gli alti ufficiali a non dare l’ordine di sparare sui manifestanti.
Le truppe rimasero al bivacco a fare la prima colazione, mentre la bandiera tricolore con i gigli borbonici, sventolava sugli edifici governativi e militari tranquillizzando gli animi.
Il messaggio per i cittadini, giornalisti, diplomatici era chiaro: i soldati non avrebbero sparato e il saggio Ferdinando avrebbe fermato pacificamente la mano dei ribelli.
Intanto in Parlamento fervevano i preparativi e il Decreto Costituzionale favore dei liberali era ormai pronto per andare in tipografia, la famosa Stamperia delle Due Sicilie, donata nel 1758 da Raimondo de Sangro a Carlo II di Borbone.
Tutto sembrava andare per il meglio quando scoppiarono pericolose scintille: alle ore 11,30 a una guardia nazionale a largo San Ferdinando di palazzo cadde di mano il fucile e partì accidentalmente un colpo. Un minuto dopo parti fortuitamente una fucilata dalla prima barricata di via Toledo tra gli applausi fragorosi dei più esagitati che spezzò le Lancette dell’orologio frontale della Reggia e due soldati rimasero feriti. Un terzo colpo partì da piazza Mercatello, l’attuale piazza Dante, e raggiunse un caporale nella sua guardiola della compagnia scelta del II reggimento svizzero, uccidendolo.
Era troppo …
Fine prima parte
Michele Di Iorio