NAPOLI – È il 19 aprile 1800. L’aria, appena avvolta da un tepore primaverile avvolge piazza delle Pigne in un abbraccio immobile e malvagio. Lei è bellissima: ha le fattezze celestiali di un angelo. Nessuno immaginerebbe le nefandezze criminose commesse che l’hanno condannata all’impiccagione insieme con i suoi complici.
È accusata di aver ammazzato e fatto fare a pezzi il cadavere del marito. È solo un attimo: la corda cruda e feroce esegue la sua stretta mortale sul collo dell’assassina e dei suoi conniventi. Tutto è finito.
La popolana Giuditta Guastamacchia ha ordito l’ efferato omicidio del marito aiutata dall’amante, dal padre, da un chirurgo e da un barbiere.
Secondo la ricostruzione particolareggiata dei fatti nel libro “Diario napoletano” di Carlo De Nicola, aprile 1800, la donna ha deciso di uccidere il marito perché era venuto a conoscenza della sua relazione adulterina ed era intenzionato a denunciarla.
Infatti, la popolana, già vedova, aveva una relazione con un sacerdote: questi, per continuare la loro storia, proteggendola da occhi indiscreti e da un possibile scandalo, decise di darla in sposa ad un suo giovane nipote. L’amante, pur avendo contribuito ad organizzare il delitto, non vi ha però partecipato a causa di un ripensamento.
I fatti. Durante la sera, in casa, Giuditta ha messo a bollire una pentola d’acqua calda. Con la scusa di cucinare della pasta ha mandato il marito a comprare dei maccheroni. Quando la vittima è rincasata, la donna lo ha invitato a sedersi per fargli accomodare i capelli dal barbiere.
A quel punto, Giuditta ed i suoi conniventi gli hanno teso un capestro alla gola, tirandolo a terra. Per favorirne la morte, che non sopraggiungeva, la donna ha posto le proprie ginocchia sopra lo stomaco della vittima per finirlo definitivamente.
Il chirurgo poi ha provveduto a smembrarne il corpo, calando ogni pezzo nell’acqua bollente, per impedirne il sanguinamento e Giuditta, colle sue stesse mani, ha fatto bollire la testa della vittima per sfigurarla. Durante la notte gli assassini hanno disperso le membra del cadavere lungo le strade.
La Giustizia ha colto in flagrante uno dei complici che ha poi raccontato la verità. Giuditta, sapendo questo, ha deciso di fuggire con i suoi conniventi, ma sono stati tutti fermati ed arrestati.
«Ed ecco quanto si sa di questo atroce fatto. Il prete l’ha scampata per la circostanza minorante, ma il pubblico lo avrebbe voluto morto anche lui perché, e non senza ragione, è a lui che imputa tutto l’accaduto: se non avesse debosciata la donna e datole quell’infelice per marito, non sarebbero caduti in tanto eccesso».
La storia sanguinosa ha come protagonista Castel Capuano, una fortezza normanna risalente al 1154 circa, eretta per volontà di Guglielmo I “il Malo”, secondo re di Napoli.
Il vicerè Pedro de Toledo durante l’annessione del Regno di Napoli alla corona di Spagna la fece divenire sede dell’amministrazione giudiziaria: vi riunì il Sacro Regio Consiglio, la Regia Camera della Sommaria, la Gran Corte Civile e Criminale della Vicaria e il Tribunale della Zecca, mentre i sotterranei divennero prigioni e camere di tortura.
Eseguita l’esecuzione, secondo la legge prevista per il delitto commesso, le mani e la testa di Giuditta Guastamacchia furono esposte sulle mura della Vicaria.
Si narra che nell’anniversario della morte, nel palazzo, attualmente sede della Sezione Civile del Tribunale di Napoli, appaia il gelido spettro della donna, errabondo e senza pace: il fantasma degli avvocati.
I teschi di Giuditta e dei suoi complici sono stati studiati dalla fisiognomica criminale e sono attualmente conservati al Museo Anatomico di Napoli.
( Foto by Pina Catino ©)
Tiziana Muselli