La vita di Giacomo Leopardi, dall’infanzia alla maturità e alla morte; da Recanati, a Torre del Greco, passando per Firenze, Roma e Napoli …
Ancora più ambizioso di “Noi credevamo”, il regista Mario Martone, e sceneggiatore del film (ITA, 14), insieme a Ippolita di Majo, ha messo su pellicola la vicenda di questa grande icona dell’800.
Ma è un progetto che è maturato nel tempo: infatti all’inizio c’era stata “solo” la rappresentazione teatrale delle “Operette morali”, curata dai due, portata con successo sui palcoscenici d’Italia; poi si è evoluto fino a coinvolgere l’intera esistenza del poeta di Recanati.
Anzi è stato proprio un viaggio nella casa avita e nella sua ricca Biblioteca, messa su dal padre di Giacomo, che il regista, « … catturato da questo labirinto di mura e di libri», come ha dichiarato, ha ideato il film.
La sfida era ancora più ardita, perché si trattava di togliere dalla naftalina dei ricordi scolastici, piuttosto che dalla imbalsamata, sterile retorica, l’immagine un po’ pallosa del poeta infelice e sconsolato. E consegnarci, invece, la complessità di una figura che attraversa il suo presente, decisamente orientata al futuro. Esattamente come c’induceva a riflettere il sottotesto di “Noi credevamo”.
Nel film, Martone insiste molto sul fatto che Leopardi, innamorato della vita, a dispetto delle sue patologie, fornito di una rigorosa cultura filologica, avesse la capacità di entrare in relazione/conflitto con gli intellettuali nelle questioni più attuali del suo tempo.
In questa chiave, peraltro documentariamente ben fondata, il regista spesso ha formulato il paragone con P.P.Pasolini. Condivido in pieno.
Non solo. Ritengo inoltre che la forza del film sta nell’avere sottolineato questa acuta consapevolezza intellettuale con il recupero della componente biografica, anche fisica e dolorosa del poeta.
Noi assistiamo al miracolo gestuale della mutazione inarrestabile del suo fisico: ma al suo storcersi ingobbito sempre più grottesco e penoso, si accompagna la più generosa, attenta e profetica battaglia “titanica” contro il conformismo annichilente della cultura del suo tempo.
Che gli farà esprimere i versi foscoliani del canto di “La Ginestra”, scritta proprio a Torre, di una assoluta bellezza lirica, di una intensa concentrazione psicologica, e di un appassionato senso della prospettiva storica. Che gli fa riscoprire l senso ideale del sentirsi parte della stessa umanità.
Il film accompagna questa scansione indubbiamente muovendosi come su una narrazione per quadri: ma le figure messe in movimento non sono statiche, racchiudono una complessa opera di sintesi di caratteristiche di un’epoca, osservate con cura.
Ad esempio: al Gabinetto Viesseux, sono riunite tutte la voci intellettuali d’Italia, ma fanno a gara a tenersi lontano dal “Contino” che il Tommaseo definirà “arrogante”. Ma sappiamo che questo era il livello della considerazione, particolarmente livorosa e ideologica nel caso del Tommaseo, di cui era oggetto.
Leopardi ne era ben consapevole: ma questo rafforza la sua autonomia. Il film ci accompagna in questo viaggio. Ma il suo termine è Napoli: sia perché fu anche quello della sua esistenza. Ma soprattutto perché il poeta qui ritrovò nella realtà sociale della città, quella primigenia esaltazione della vita in quanto tale, che egli aveva associato a quelli che chiamava intellettualmente “primitivi”.
E c’è quella bella sequenza al tavolo dei popolani che illustra molto vivacemente questo passaggio; come anche quella del lupanare, unica deroga alla documentazione rigorosa.
Il film funziona perché Elio Germano accompagna genialmente l’ispirazione del regista: vi dà corpo e anima, senza alcun grottesco.
Di elevata qualità il montaggio, di Jacopo Quadri, e la fotografia, di Renato Berta: senza che ce ne rendiamo conto, ci portano al capitolo su Napoli serrandoci in un gioco di luci e di spazi che ci assedia e ci commuove.
Francesco “Ciccio” Capozzi