Teheran: una coppia di giovani è in procinto di prendere l’aereo per Melbourne. Viene affidato loro un neonato dormiente, che però non si sveglia più …
Il cinema iraniano, a cui appartiene questo titolo (IRAN, 14), è più conosciuto ai Festival, dove incontra il favore della critica: ma poco o niente al pubblico.
Anzi, a dirla con Valerio Caprara, è “progettato” per essere un fenomeno da festival, che piace ai buoni sentimenti degli addetti ai lavori. Anche perché trattasi di cinema produttivamente povero, clandestino, se non boicottato in patria, quindi con le stimmate della vittima politica, che spesso fa della povertà una bandiera, ispirandosi al neorealismo italiano.
Talvolta, invece, come per miracolo, tali elementi sono come resi viventi, attraversati dalla fantasia. È il caso di questo bel film.
L’ambientazione è tutta solo in un appartamento, i personaggi sono due, i tempi sono scanditi con ossessiva precisione. Ma la scoperta che il lattante non è più vivo rende l’atmosfera elettrizzata. Innanzitutto gli spettatori assistono impotenti e straziati al dramma del piccino: ma con abilità luciferina, il regista/sceneggiatore Nima Javidici tiene in bilico sulla corda dell’attenzione, angosciata e impotente, per tutta la durata del film: prendendosi gioco di noi, delle nostre ansie.
Vorremmo gridare e far svegliare quel bimbo! Ma con atroce crescendo il regista chiama in causa altri personaggi. Ognuno di loro è portatore di problemi e di difficoltà personali. Voglio dire: la sceneggiatura accenna a fattori più complessi, di carattere relazionale e sociale, ma lo fa con rapidi e mirati accenni. Lo fa quasi non facendocene accorgere di farlo.
Lascia tracce nella nostra memoria, che dopo – ma “solo” dopo – possiamo ricostruire. Presentato a Venezia ‘14, ha fatto parlare di atmosfere alla Hitchcock. Condivido. Anche perché questo giovane regista – è nato nel 1980 – non vuole fare citazionismo, vezzo tipico dei nostrani intellettuali pippeurs di cinema ma come “il Mago” vuole fare cinema che tutti possano vedere. E ci riesce.
L’atmosfera si fa man mano più oppressiva e attanagliante sui due giovani che non sanno uscire dall’inghippo in cui si sono trovati non per colpa loro. Come per il regista inglese, non è importante il “cosa”, ma il “come“ avviene.
Qui, però, non sono concentrati su pochi personaggi, che vengono spietatamente analizzati, ma si dipanano su un universo che circonda i due giovani, che rende la vita dei due sicuramente protetta, ma asfissiante. Assai significativo è il personaggio della madre di lui, che non esita a ricattare affettivamente suo figlio.
I movimenti di macchina e di montaggio sono essenziali: non hanno nulla di compiaciutamente ricercato, tipo elaborate piano sequenze . Ma gli spostamenti dei due sono osservati con assoluta naturalezza e semplicità. Come se fossero, ogni volta, sospinti “contro” le pareti, schiacciati verso spazi angusti e chiusi, pure all’interno di ciò che è loro familiare.
È tuttavia un cinema molto raffinato. Molto “sul pezzo”, nel senso che il regista è concentrato sull’atmosfera narrativache vuole ottenere. E ci si rende conto col proseguire e montare del climax che il problema che sta a cuore al regista è di tipo etico, anche grazie alla assoluta mancanza di ogni commento musicale che avrebbe distolto l’attenzione dai due, il vero centro narrativo del film.
Cosa avrebbe dovuto fare la nostra coppia? Che tipo di responsabilità avrebbero dovuto accollarsi? Il film pone domande, in modi non moralistici, ma esistenziali: in questo senso. Il pianto finale ha una forte presa e non è liberatorio.
Il regista, e i suoi attori, tra cui il protagonista è reduce dall’altro film iraniano che l’anno scorso ha molto convinto (“Una separazione”, Oscar Miglior Film Straniero 2012) costruiscono tale complessità con strumenti espressivi molto padroneggiati; che riecheggiano alcuni stilemi del “neorealismo” iraniano (vi sono citazioni di “Il palloncino bianco”). Ma con un piglio decisamente originale.
Francesco “Ciccio” Capozzi