Un incontro fortuito in paesaggio costantemente innevato tra un automobilista e una donna alle prese con persone poco raccomandabili, innesca una relazione-confronto molto impegnativa.
Stefano Incerti è il regista-sceneggiatore del film (ITA, ‘13). Ne è stato anche produttore insieme a Dario Formisano: a quest’ultimo, si devono film coraggiosi come “Là bas. Educazione criminale”, esordio di Guido Lombardi e il suo successivo “Take Five”.
Incerti, napoletano, si deve definire un autore del cinema italiano. Persegue una linea di ricerca di cinema autonoma e personale: per nulla compiaciuta intellettualmente; anche se fortemente sostrata di elementi di approfondimenti e confronti psicologici, civili e sociali.
Inoltre riesce a trovare spesso soluzioni espressive e stilistiche di ampia efficacia. A finale: è uno che, col suo cinema, non “dice di fare” e velleitariamente partorisce topolini rinsecchiti, ma “fa”.
Utilizza e si cimenta coi generi narrativi: e lo fa con scioltezza e sicurezza narrativa e compositiva. E non cerca di “annobilirli” con insopportabili vezzi citazionistici.
Vuole trovare una sua dimensione: è stato il caso del geniale “Gorbaciòf”(‘10); fu con il folgorante film d’esordio “Il verificatore”(‘95). Come anche la sua passione civile è stata declinata in modi non celebrativi ma di riflessione meno moralistica con “L’uomo di vetro” (‘07), sul primo pentito antimafia che non fu creduto all’epoca: fu rinchiuso in manicomio e poi eseguito dalla mafia.
Mi dilungo su questi aspetti, perché questo bel film non nasce dal nulla, ma da una ricerca, un’ispirazione, una resa che vengono da lontano. Non ha paura di soffermarsi su ciò che, per una buona parte del film, serve solo a dare il senso di una relazione tra i due personaggi principali, che, pur se stanno insieme, parlano poco. Ma è grazie a questa sorta di rallentamento invernale, in cui assistiamo, e diventiamo come parte del cadere della neve, i gesti e gli sguardi assumono un’evidenza, una complessità che “apre” a molti scenari “dentro” i silenzi stessi.
Le “storie” che i due si narrano di loro stessi, sono come intessute dei freddi di esistenze passate “fuori” di loro stessi. Perciò la neve diventa un potente fattore espressivo: non solo perché rende straordinariamente intense ed emotive le atmosfere che si creano tra i due, ma perché, assorbendo e attutendo ogni superfluo rumore, invita, come ha dichiarato l’attore protagonista, il bravissimo Roberto De Francesco, a lavorare di recitazione a “togliere”, piuttosto che enfatizzare esteriormente.
C’è un incontro casuale del protagonista con la piacente parrucchiera del paesotto, che al contrario di lui vorrebbe “parlare”: anzi gli si offre proprio.
Ecco come il regista intelligentemente, pur senza pontificare e/o giudicare nessuno, ci suggerisce per contrasto, cosa intende per solitudine, quando la ricerca, il tentativo di dialogo è portata fuori di sé. Mentre i due non parlano mai di sé, ma molto tra sé; e solo a pezzi e a bocconi capiamo le motivazioni per cui l’automobilista si trovasse da quei paraggi.
Capiamo le motivazioni profonde, non solo quelle del plot, dell’agire di lui nei confronti dell’enigmatica, ma vitale (oltre che bellissima…) Norah; il rispetto, la positività generale, la non paura con cui si pone rispetto a lei. Perché ha molto sofferto rispetto alla vita, ma anche molto combattuto; e continua a farlo.
Ha conosciuto e considera la profondità degli affetti, rispetto alle persone che sono impegnate con lui: la moglie defunta, la figlia. E l’urlo disumano del finale è profondamente complesso psicologicamente, perché non è solo la perdita ad essere in gioco; ma è tutto l’insieme di ciò in cui crede e vorrebbe e potrebbe porsi in grado di trasformare anche l’esistenza di lei, che è violentemente messo in discussione. L’aprirsi ad un finale incerto implica un lumicino di speranza.
È chiaro che il film si regge sugli attori. De Francesco, attore di teatro, colto, preparatissimo, è come se si annullasse nell’esteriorità fisica, per poi ingigantirsi nel modo con cui fa vibrare la sua ricchezza interiore, senza orpelli o enfasi.
Esther Elisha, bella in modo non convenzionale, ha una fisicità che sa arricchirsi di sfumature: una complementarietà quasi corporea con la macchina da presa, che ne mette in luce le contraddizioni dell’anima.
Davvero egregio il lavoro del direttore della foto Pasquale Mari, coadiuvato da Daria D’Antonio, e del montatore Dario Incerti: alle prese col bianco assoluto, l’hanno fatto variare con attenta e sofisticata professionalità. Tenendo anche conto dell’estrema contenutezza del budget del film – 500mila euro – hanno fatto miracoli.
Francesco “Ciccio” Capozzi