L’opinione pubblica europea è ancora scossa dalle terribili immagini degli attentati di Parigi ad opera di sedicenti miliziani dell’ISIS – lo “Stato Islamico” autoproclamato dal califfo Abū Bakr al-Baghdādī, leader jihādista, non riconosciuto dall’ONU – che nel giro di due giorni hanno colpito prima la redazione dell’irriverente giornale satirico Charlie Hebdo e successivamente il supermercato kosher e la tipografia “Création Tendance Decouverte” situata pochi chilometri fuori la capitale.
Il gruppo di terroristi era composto da tre elementi: i fratelli franco-algerini Saïd e Chérif Kouachì e Amedi Coulibaly, cittadino francese nato nella provincia a sud di Parigi, originario dello stato africano del Mali.
I tre uomini hanno prima fatto irruzione nella redazione della testata Charlie Hebdo il 7 gennaio scorso, uccidendo 12 persone (tra cui il portiere dell’edificio) colpevoli d’aver offeso il profeta Maometto con le vignette sull’Islàm.
Successivamente nell’arco delle successive 48 ore, dopo aver assassinato una poliziotta durante la loro fuga, si sono divisi in due gruppi: Coulibaly ha occupato il supermercato parigino tenendo in ostaggio i clienti, dopo averne prima ucciso quattro poveri malcapitati colpevoli solo d’esser di origine ebraica. I fratelli Kouachì si sono asserragliati nella tipografia tenendo in ostaggio il titolare. I tre terroristi sono stati poi freddati durante il doppio blitz delle forze speciali francesi avvenuto in contemporanea in entrambi i luoghi.
A distanza d’una decina di giorni l’orrore e lo sgomento hanno poi lasciato il posto alla paura, allo stato di allerta che si è innescato dapprima in Francia e immediatamente dopo nel resto d’Europa. E così è scoppiato nuovamente l’allarme terrorismo che alimenta ulteriormente i sentimenti di xenofobia nei confronti dello straniero, dell’immigrato di fede islamica, mentre le istituzioni si interrogano sulle misure di sicurezza da adottare.
L’opinione pubblica italiana guarda con sospetto le moschee e tutti i luoghi di culto islamici come centri d’aggregazione e reclutamento di potenziali terroristi pronti a colpire anche nel nostro Paese.
Come deve porsi l’Italia nei confronti di questo preoccupante fenomeno? Deve temere un qualche tipo di sanguinoso attentato come quello avvenuto a Parigi o come quei ben più tragici avvenuti nel corso degli anni a Madrid, a Londra e prima di tutto a New York l’11 settembre 2001?
Indipendentemente dai sentimenti xenofobi alimentati da una certa parte dell’opinione pubblica che non aspettava altro per tornare a puntare nuovamente il dito verso l’immigrazione straniera, è doveroso precisare che allo stato attuale è giusto porsi il problema della sicurezza ed è dovere sacrosanto delle nostre istituzioni usare tutti i mezzi possibili per la lotta al terrorismo. Perché non vi è dubbio che il mondo occidentale è sotto attacco da parte di una organizzazione terroristica che agisce con l’alibi della guerra ideologica.
Geograficamente localizzata in alcune regioni del Medioriente tra la Siria e l’Iraq, l’Isis da diverso tempo combatte contro le forze armate alleate della comunità internazionale che tentano di ristabilire l’ordine e rovesciare il regime dittatoriale del califfo jihādista Abū Bakr al-Baghdādī.
Ma il fenomeno delle “schegge impazzite” che in Europa agiscono in nome della jihād, dell’Isis o di Al Qaeda, senza che sia mai stato confermato un reale collegamento tra di loro, merita una riflessione a parte.
Innanzitutto occorre ricordare che i tre attentatori, Amedi Coulibaly e i fratelli Kouachì, non erano degli immigrati entrati clandestinamente in territorio francese armati di kalashnikov, sfuggiti ai controlli della polizia di frontiera, ma erano cittadini a tutti gli effetti, di origini africane (fanco-algerini i fratelli Kouachì e malesi le origini di Coulibaly) ma nati e cresciuti nel Paese.
Infatti la Francia, ex potenza coloniale, così come lo è stato anche il Regno Unito, da poco più di un secolo ha assorbito una buona parte di popolazione proveniente dagli stati del Nord Africa come la Tunisia, il Marocco e l’Algeria, un tempo vassalle del colonialismo durato fino agli inizi degli anni ‘60.
I cittadini nordafricani venivano considerati parte integrante dello Stato e godevano della cittadinanza francese. Fu uno dei principali riconoscimenti dati ai soldati coloniali reclutati in massa durante la seconda guerra mondiale per ricostituire l’esercito francese in Nord Africa durante l’occupazione nazista.
In seguito, finita la guerra durante il processo di decolonizzazione molti cittadini provenienti dalle ex nazioni occupate (di cui gran parte di madrelingua francese) immigrarono in terra di Francia, che accolse ben volentieri tutta questa fiorente forza lavoro proveniente dalle ex colonie. Ed è stato proprio questo vasto fenomeno avvenuto nel secolo scorso a generare una progressiva diffusione della cultura islamica oltralpe. Ragazzi come Coulibaly e i fratelli Kouachì non sono altro che figli o addirittura nipoti, di seconda o terza generazione della immigrazione dalle ex colonie africane, cittadini francesi a tutti gli effetti di fede musulmana.
Paradossalmente questa tipologia di popolazione, a causa del radicato sentimento di nazionalismo francese, è sempre stata relegata ai margini della società, isolati in degradati agglomerati di periferia come le banlieue parigine, note all’opinione pubblica per diversi episodi di violenza urbana e spaccio di droga.
I figli di quella immigrazione di massa avvenuta negli anni Sessanta e Settanta, pur godendo sulla carta dei diritti di cittadinanza all’atto pratico non sono però mai stati accettati completamente dalla comunità, maltrattati dalla polizia, espulsi dalle scuole del centro e costretti ad arrangiarsi con lavori poco gratificanti.
Questa contraddizione ha generato una sorta di francesi di “serie B”, guardati con diffidenza dal ceto medio, e perciò facilmente influenzabili da certe ideologie anarchiche e sovversive che possono anche spingere questi giovani emarginati a ribellarsi contro il sistema anche con atti estremi come quelli avvenuti a Parigi una decina di giorni fa.
È facile immaginare che alcuni di questi giovani emarginati possano essere stati influenzati da certe particolari guide spirituali islamiche integraliste – gli imàm predicanti la delirante causa jihādista – a lottare per la liberazione del sedicente stato islamico in Siria. Hanno trovato una nuova “ragione di vita” in grado di riscattarli dal loro stato di cittadini inferiori. Probabilmente il messaggio ricevuto dai leader jihādisti in Siria dev’esser stato del tipo: «Se la Francia vi considera dei reietti, noi vi affidiamo una nuova missione e vi consideriamo degli eroi». Non è difficile immaginare come si sia potuto arrivare ai tragici eventi di Parigi.
La situazione in Italia è decisamente diversa. Tutti gli immigrati che entrano nel Paese lo fanno principalmente per trovare lavoro, anche il più modesto, oppure perché hanno abbandonato il loro per fuggire dalla guerra.
La seconda generazione di queste persone è formata per la maggioranza da individui nati in Italia oppure arrivati in fasce. Bambini che frequentano le nostre scuole assieme ai bambini italiani, che imparano la lingua, la cultura e le abitudini, pur conservando la loro fede islamica. Li si vede giocare a pallone con i bambini italiani, mentre i loro genitori lavorano umilmente nelle fabbriche, nei ristoranti, nelle imprese di pulizie o nelle imprese edili.
Accolti con benevolenza dalle comunità si sono integrati con facilità, prendendo le distanze dagli atti terroristici compiuti in nome dell’islàm, tranne pochi isolati fanatici facilmente identificabili, che di certo non dispongono né di mezzi né dell’organizzazione militare necessaria per compiere tragici atti terroristici.
Infatti non è un caso se negli ultimi anni in cui altrove sono avvenuti tragici attentati in Italia non sono mai avvenuti fatti del genere. Anche perché non è affatto facile per questi immigrati procurarsi armi ed esplosivi di tale entità in grado di causare simili stragi: in Italia il mercato clandestino delle armi è gestito dalla criminalità organizzata.
Da questo punto di vista l’Italia, nonostante un latente razzismo dovuto per lo più all’ignoranza, si è rivelato un Paese molto più tollerante di tante altre nazioni europee, in grado di accogliere e adottare come “figli” chi passa per le sue sponde con estrema facilità. E così è sempre stato da secoli.
Un esempio storico di questa capacità di integrazione lo si ritrova al tempo del secondo dopoguerra, quando i soldati angloamericani passeggiavano per le strade sentendosi praticamente a casa. E proprio in quel periodo tra le truppe americane si registrava un anomalo e diffuso fenomeno di diserzione soprattutto da parte dei militari afroamericani, che sparivano dalla circolazione nascondendosi un po’ ovunque con la speranza che il loro plotone facesse ritorno in patria senza di loro. Preferivano infatti rimanere in Italia, piuttosto che far ritorno negli U.S.A.
Infatti nelle le città della penisola scoprivano di poter godere di una libertà che nemmeno nel loro Paese possedevano: gli Stati Uniti d’America in quel periodo erano ancora soggetti a una diffusa apartheid, soprattutto negli stati del Sud, che non permetteva ai neri nemmeno di sedersi allo stesso posto dei bianchi sui mezzi pubblici.
In pratica integrazione culturale e tolleranza sono le qualità che almeno a monte possono rivelarsi per l’Europa le migliori risorse antiterrorismo, prima ancora di qualsiasi piano di sicurezza nazionale.
Francesco Bartiromo