I ritratti degli occhioni tristi, un’icona grafica USA dei ‘60, furono a lungo attribuiti a Walter Keane: mentre erano in realtà di Margaret, la moglie.
Il film (USA, 14) segue paro paro e illustra la storia,tanto vera e documentata che sembra fiction … Come al solito Tim Burton, il regista di quest’opera, spiazza tutti.
Perché ha tratto un film da questa vicenda? Cosa realmente lo interessava? Eppure, con quei ritratti un po’ monocordi e ossessivi, non siamo di fronte a dei capolavori dell’arte americana, in quel momento in piena sperimentazione; quanto piuttosto a dei prodotti kitsch. Che però, pur ferocemente stroncati da sprezzanti critici ufficiali, ebbero una rispondenza empatetica profonda nel pubblico, magari di profani dell’arte, ma anche fatto di attori di Hollywood, intellettuali, manager ecc.
Ma forse è proprio questo un punto di partenza: chi e che stabilisce se qualcosa commuove gli animi, se non coloro che sono commossi? E questo ha a che fare coll’esperienza professionale di Burton, specie all’inizio: i suoi film erano sopportati con sufficienza.
Ma questo giocare col kitsch non è un vezzo intellettuale, è solo un aspetto superficiale, un packaging formale dello stile del regista: la sua è invece una dimensione emotiva profonda, in cui egli stesso è profondamente coinvolto, che non ha paura di raggiungere, di esplicitare, mettendo in mostra gli aspetti che vanno al di là dell’apparente, dell’esteriore. Il “lasciarsi prendere” dalla commozione è, piuttosto, il turbamento virgiliano, che partecipa alle lacrimae del mondo.
I suoi grandi personaggi hanno visto il prevalere di quest’orma: Edward-Mani-di –Forbice, il Pinguino del II Batman, ed altri. Del resto i personaggi che più lo ispirano, più gli fanno simpatia sono i perdenti. E in “Big eyes” tutti e due, e non solo il marito, lo sono. In particolare, quei perdenti che lottano coll’avere o col non avere il talento necessario a creare arte.
Tim Burton è affascinato dai losers: egli vede un mondo di possibilità nelle loro anime, pur nel caos del non detto, perché non ne hanno gli strumenti intellettuali.
Uno dei suoi film più belli, e uno dei capolavori della storia del cinema (a mio avviso, s’intende…), è “Ed Wood” (94): dedicato al regista più scadente e sfrantummato di Hollywood. In un malinconico bianco e nero, Ed Wood, uno strepitoso Johnny Depp, si confronta con la pochezza dei suoi strumenti: ma va avanti perché è un’anima candida. Ama talmente il cinema, i suoi ambienti e personaggi, i quali lo richiamano ad un mondo fantastico pieno di sentimenti e di avventure, che non ha paura del ridicolo, procede lo stesso a girare e produrre.
Burton ha spesso richiamato questo film, nel presentare i Keane, in particolare il marito, forse nemmeno pittore, mezzo lestofante, ma imbonitore bravissimo. Egli parla di una Parigi che si ostina a presentare nei suoi trafugati acquerelli, che forse nemmeno ha visto. Ma, come dice Bellavista in un famoso film di De Crescenzo, vende il suo sogno: e lo trasforma in una “sensazione” anche per l’acquirente.
E così fa con le opere della moglie, specie all’inizio: ma poi dimentica il ruolo e pretende con la violenza ciò che è non gli appartiene: il talento. Indubbiamente in quella woodyalleniana performance in cui fa contemporaneamente l’avvocato e testimone, l’attore Chistoph Waltz è d’istrionica bravura e trascinante simpatia. Il regista, pur senza giustificarlo, lo fa intendere come una vittima della sua stessa pochezza: tuttavia le conseguenze saranno disastrose per lui.
Ma anche la donna è una perdente. La sua è un’ossessione figurativa, che però, grazie alla furba promozione del marito, è diventata un’icona virale: ma senza di lui che sarebbe stato? La pittrice è una donnetta che ha le sue personali fisime: non è un’ intellettuale che dialogando col suo talento, lo accresce e lo rafforza; tende ad essere lagnosa e autogiustificazionista. Ed in fondo è stata complice del marito, pur avendo il sacrosanto diritto a rivendicare con energia la sua dignità d’autrice.
La caratterizzazione di Amy Adams è volutamente sottotono: anzi, la sua è una parte più difficile. All’inizio noi la vediamo percorrere gli spazi come in una favola: scenografie e colori pastellati. Poi i volumi scenografici e cromatici diventano sempre più incombenti e oppressivi: segno di una trasformazione profonda della sua anima.
Francesco “Ciccio” Capozzi