Il kanùn, primitiva e arcaica legge cui si attengono molte comunità albanesi, prevede che solo quando ha fatto voto pubblico di verginità perpetua, una donna può fare ciò che fa l’uomo. È la storia di Hana, che diventata Mark, è in lotta con se stessa.
Ispirato nelle sue linee generali ad un romanzo-documento della scrittrice albanese Elvira Dones, pubblicato in Italia da Feltrinelli, è un film (ITA-SVIZZ-FRA- ALBAN, ‘15) frutto di una collaborazione transnazionale moltosingolare, perché è stato girato in Kosovo con capitali europei.
Come molti recenti bei film di giovani registi italiani che vogliono uscire fuori dagli schemi espressivo-narrativi tradizionali, si avvale di modalità produttive, approcci stilistici e perfino di organizzazione tecnica della ripresa, desunte dal cinema di realtà, il “vecchio” documentario, che è diventato a tutti gli effetti un altro dei mainstream del cinema.
Grazie alle tecniche digitali, più leggere, più agili e soprattutto più economiche, si possono girare storie in condizioni prima impensabili. E ciò ha permesso che delle vicende, che traevano la loro forza all’interno di specifici contesti reali, possono essere narrate in quelli. Perché è possibile avere un approccio non invasivo, ma estremamente rispettoso delle esistenti e veritiere dinamiche personali e sociali di cui queste vicende erano espressione: senza doverle ricostruire più o meno artificiosamente in studio.
La regista Laura Bispuri – anche co-sceneggiatrice del film insieme alla giovane ma esperta Francesca Manieri: tutte due provenienti dal cortometraggio- ha dichiarato che ha convissuto in quelle comunità dove ha ambientato il film per ben due anni: «E ciò al fine di conquistarne la fiducia».
E solo in questa chiave si spiega come gli autori abbiano potuto avere davanti la stupenda sequenza mimata del funerale al padre saggio, membro rispettato della comunità, dove gli altri anziani capifamiglia gli facevano omaggio avvicinandosi alla bara per un ultimo saluto sotto forma di aquile (il simbolo nazionale albanese) commosse in una specie di danza attorno al feretro scoperto. È una sequenza molto elaborata di una semplicità e potenza epica emozionante, perché fatta non da attori, ma da gente del villaggio.
Questi spazi montani, non invitanti, ma maestosi, duri e veri, intervallano, insieme alle scene dell’infanzia della protagonista e della sorella acquisita (Hana è una trovatella), quelle in cui Hana/Mark è in fuga dal paesotto dove era masculo forzatamente vergine, andando presso la sorella, ora sposata e integrata a Bolzano, che bene aveva pensato di fuggire. Morto il padre e la madre putativi, per lei non c’erano più ragioni di restare.
L’aspetto che rende convincente l’assunto narrativo del film, è che non c’è alcun intento moralistico di denuncia: lei era convinta e consapevole di fare ciò che ha fatto. E in realtà aveva un riconoscimento sociale tra i concittadini.
È ovvio che a noi sembra un abuso ripugnante: ma nella realtà data hauna sua logica, perfino positiva. E l’interpretazione di Alba Rohrwacher, e la sua conduzione registica, tutta per sottrazione, è “all’interno” di questa logica.
Poi, in relazione al l’allontanamento da quelle modalità sociali-esistenziali, è perfettamente lineare che, col tempo, e con l’assumere diverse forme di aggregazione ai nuovi e disabituali contesti, Hana si “allontani da Mark”, e riprenda il suo posto di donna nel mondo. Ma ha sempre qualcosa di quel Mark… Com’è giusto e realistico pensare che debba essere: come, tra l’altro, è stato indicato dalla regista.
Il film è tutto giocato con sensibilità tutta femminile su questo doppio registro: si avvicina alle problematiche suscitate con delicatezza e senso narrativo adeguato. C’è lo spaesamento come adolescenziale, quando Hana è alle prese del sesso: ma il percorso è affrontato con la stessa attenta, concentrata e consapevole maturità con cui prima si era sottoposta al Kanùn.
Parte non piccola della qualità del film è la sua fotografia: il direttore ne è il bosniaco, ma diplomatosi al CSC di Roma e operante da tempo in Italia, Slatan Radovic. Evidentemente ha portato quel che di familiare nell’individuazione del giusto equilibrio di cromaticità, tra rappresentazione corale e spazi naturali.
Francesco “Ciccio” Capozzi