In una colazione all’aperto durante la vacanza sulle Alpi di una tranquilla famiglia scandinava dalle apparenze felici e affiatate, si abbatte una specie di valanga. Nel panico generale, mentre la moglie pensa subito ai figli, il marito pensa a salvare se stesso.
Non ci poteva essere partenza più semplice di questa: un banale incidente che mette a nudo tutto ciò che sembrava non esistente. Che manifesta delle realtà sconosciute agli stessi che le stanno vivendo.
L’intelligenza assoluta del quarantunenne regista svedese Ruben Oestlund, sceneggiatore, nonché montatore di questo film (SVE-DAN-NORV-FRA, ‘14), è di essere partito narrativamente da un “piccolo” episodio ma di averlo sviluppato con grande rigore esponenziale. Mettendo tutti di fronte alle conseguenze, che diventano come quelle valanghe “provocate” da mine che echeggiano implacabilmente nel corso della prima parte. Sono magari indifferenti e lontane, ma non mancano di punteggiare una realtà che è perpetuamente, pericolosamente in bilico, come circondata da insidie.
Lo stesso scenario della montagna, in cui è incastonato l’enorme, freddamente e asetticamente lussuoso , labirintico e silenzioso, quasi disabitato – eppure per contrasto sulle piste c’è molta umanità – Resort di Les Arcs in Haute Savoie, non dà quel senso di infinito e di assolutezza che ci aspetteremmo dall’open space, ma un senso di angosciosa oppressione in cui sembrano rinchiusi i quattro membri della famigliola, quasi in una sorta di coattività vacanziera.
La gestione dei cromatismi è rigida e fredda: il direttore della foto,Fredik Wenzel, molto sperimentale, è riuscito a irradiarvi – pur all’aria aperta e nelle diverse sfumature della neve – un’incombente atmosfera dalle ombre quasi horror, benché il film non lo sia non per nulla.
Qualcuno ha paragonato l’insieme visuale interno-esterno all’Overlock Hotel di kubrickiana fantasia: ma, ripeto, siamo assolutamente lontani da ogni tensione o effetto horror.
Il film è tutto basato su progressivi coinvolgimenti psicologico-ambientali. Anzi, è da notare come questo esperto regista, pur sgusciando tra le diverse citazioni filmiche, tutte adeguate e funzionali, da una parte non se ne compiace, ma le utilizza come luoghi narrativi che aiutano e sottolineano gli sviluppi dei personaggi. Dall’altra, da notare che il suo fondamentalmente non è un cinema “della cattiveria”, alla Haneke, il regista austriaco cui è stato avvicinato, che impietosamente smaschera e sferza tutti le finte certezze piccolo borghesi di civiltà e decoro. Haneke le mette a nudo per dimostrarne l’intima ipocrisia e la sostanziale violenza di rapporti sociali che sottendono.
Nel presente film, la consapevolezza femminile è la voce più decisa: la moglie, la bravissima attrice norvegese (nota in tv) Lisa Loven Kongsli, va per gradi più a fondo della questione. Ne è investita in un processo di maturazione progressiva, molto umano, credibile e realistico.
In questo, il lavoro di sceneggiatura è di cesello. Come anche sono validi e convincenti i dialoghi e gli scambi, gli approfondimenti e le reazioni che ne scaturiscono non solo nei due , ma tra i vari personaggi, come nella coppia di amici coinvolti.
Anche il ruolo del marito, l’attore svedese Johannes Kuhnke, è costruito con molta cura: in un certo qual modo non si rende nemmeno conto di ciò che ha fatto. Nega, all’inizio, che sia avvenuto. Poi, messo alle strette e di fronte all’evidenza, entra in un tunnel di disperazione-autocommiserazione da cui poco manca che sia lui a dover essere salvato. Ma, proprio questo insieme di sequenze, fa intendere il “polso” del regista, la sua concezione non apocalittica e nemmeno banalmente intimistica. Gestisce con freddo e distaccato documentarismo simil-mélò questa quasi commiserazione collettiva di catarsi familiare. In ciò manifesta il suo non moralismo nell’accogliere le complessità e contraddizioni strutturali dell’universo-famiglia; e il suo mistero.
Del resto la doppia metafora del sottofinale, quella del perdersi-ritrovarsi tutti insieme nelle tormenta della neve e il procedere tutti insieme a piedi, dopo essere discesi dal pullman, guidato in modi irresponsabili, sulla via del ritorno, indica come i processi di colpa, responsabilizzazione, perdono reciproco siano inestricabilmente annodati.
Francesco “Ciccio” Capozzi