La post-season Nba è giunta all’ultimo capitolo. A partire dal prossimo 4 giugno sarà Cleveland – Golden State la serie che ci dirà chi è davvero il più forte.
Cavalieri contro Guerrieri: insomma comunque la si voglia mettere, sarà una battaglia. Ma analizziamo la corsa che ha portato le due franchigie sul tetto delle rispettive Conference.
I Warriors arrivano alle Finals dopo quarant’anni e lo fanno con un roster fatto tutto di esordienti, coach incluso: Steve Kerr, al primo anno assoluto su una panchina Nba, ha però già saggiato le Finali da giocatore e sa anche cosa vuol dire vincerle: campione con i Bulls di Michael Jordan dal ’96 al ’98 e con i San Antonio Spurs (’99 e 2003).
La cavalcata dei Guerrieri è iniziata con il cappotto inflitto ai Pelicans di Anthony Davis (4-0), proseguita contro gli ostici Memphis Grizzlies (4-2) e conclusasi in gara 5 contro i Rockets di James Harden, che dopo aver rimontato da sotto 3-1 in semifinale contro i Clippers, si sono dovuti arrendere al talento di Curry e compagni.
Già, Steph Curry, l’Mvp della stagione, il giocatore che sta strabiliando il mondo (cestistico e non). Per lui miglior percentuale al tiro da 3 (44%), 29.2 punti a partita e record di triple segnate in una singola post-season (73).
Ma attenzione a giudicare i Golden State solo dal talento del loro leader, perché la loro forza è soprattutto nel gruppo. Coach Kerr ha plasmato una squadra che difende alla grande, che fa viaggiare il pallone alla velocità della luce e che può mettere punti a valanga spaccando le partite.
I Cavaliers, costruiti intorno a Lebron James, hanno avuto vita facile ad Est, dove però – c’è da dire – il livello è meno competitivo. Cleveland torna in Finale dopo 8 anni, da quel 2007 in cui fu sempre il Prescelto a guidarla, per la prima volta, sulla vetta dell’Est.
Ma i Cavs di oggi sono una squadra diversa, costruita davvero per vincere. Solo due sconfitte in post-season per Lebron e compagni: 4-0 contro la sorpresa Boston, 4-2 in semifinale contro i Bulls in crisi d’identità e cappotto anche contro gli irriconoscibili Atlanta Hawks.
Proprio la serie contro Atlanta ha mostrato come Cleveland abbia fatto il salto di qualità soprattutto nella meta campo difensiva: gli uomini di coach Blatt (anche lui esordiente) hanno annullato la circolazione di palla e il tiro da 3, i punti di forza degli Hawks, dominando anche a rimbalzo. E questo nonostante l’assenza di Kevin Love, infortunatosi contro i Celtics in gara 4 e con un Kyrie Irving acciaccato per i problemi al ginocchio.
Notevole però è stato l’apporto dei comprimari, su tutti Tristan Thompson, ineffabile a rimbalzo, ma anche Jr Smith e Shumpert, sempre più affidabili dall’arco dei 3 punti.
Il vero artefice di questi risultati però è lui, il Re, mai così decisivo, non solo per le statistiche (quasi una tripla doppia di media nei playoffs) ma soprattutto per la sua leadership. Per James sono le Finals numero sei della carriera, le quinte consecutive. Per lui poi, tornato lo scorso anno come il figliol prodigo nella sua Cleveland, già centrare le Finals a distanza di 8 anni ha un sapore particolare; ma vincerle sarebbe davvero tutt’altra cosa.
Gianlorenzo Attanasio