PARIGI (FRANCIA) – All’Hotel de Ville si tiene un’esposizione ad ingresso gratuito in occasione del centenario del tragico genocidio in Armenia, attraverso un iter scandito da un prestito eccezionale di 350 documenti, tra foto e oggetti provenienti dal Museo-Istituto del Genocidio Armeniano e dalla Biblioteca Nubar di Parigi, rievoca uno dei episodi più sanguinosi e cupi della storia.
La mostra, diretta da Jean-Marie Vernat ed Isabelle Cohen, offre tutti gli strumenti utili alla comprensione storica della diaspora armena, partendo dalle cause che l’hanno originata, fino a descriverne, con l’ausilio delle fotografie storiche e di carte geografiche dettagliate, le ultime fasi.
Sotto la dicitura “massacro degli armeni” s’intende un processo di sterminio graduale, che prevede alcune fasi ascrivibili a diversi periodi storici, tuttavia collegabili tra loro. Provare a ricostruire le tappe di questo disastro collettivo è un’operazione non facile, a causa della frammentaria cronaca storiografica, in aggiunta ai tentativi di occultamento da parte del governo turco.
C’è ancora oggi chi è fermo nella convinzione di voler negare tali avvenimenti, come sempre accade quando si parla di deportazioni e massacri di massa. In questo caso, però, la documentazione fotografica e le statistiche relative alle morti, non hanno bisogno di molte parole. Sono sufficienti per raccontare un fenomeno che il governo di Ankara giustifica come uno “scontro equo con perdite da ambo le parti”.
Attorno al XX secolo, gli Armeni erano principalmente concentrati nelle sei province orientali dell’Impero Ottomano, loro territorio naturale, come anche a Costantinopoli e nelle maggiori città dell’Anatolia. La maggioranza della popolazione conduceva una vita tradizionale, praticando attività rurali.
Le prime violenze di massa si localizzano intorno all’estate del 1894 nel distretto armeniano di Sassun. Questi massacri presentati come una “rivolta” degli armeniani, costringono le forze europee ad organizzarsi per imporre al sultano delle riforme nelle province armeniane.
Nell’ottobre del 1895, quello che passa come un tentativo di imporre decreti di riorganizzazione dell’amministrazione locale, da parte del sultano ottomano Abdul-Hamid II atti a garantire la sicurezza dei beni e delle persone, sono di fatto i primi massacri su grande scala. Si tratta della prima fase di un processo di sterminio destinato a durare circa un secolo.
Dal 1908 al 1918, l’Impero Ottomano è diretto, quasi senza interruzione, dal Comitato Unione e Progresso (CUP), un partito interamente controllato da un comitato centrale di nove membri, che costituiscono un potere parallelo. Il comitato ha incrementato il suo potere nello sviluppo di una rete di partiti locali, rimpiazzando gli ufficiali dell’esercito ed i dirigenti dell’amministrazione con dei militari di partito. L’efficacia del programma di genocidio fu dovuta all’associazione dello Stato-partito con dei nobili locali, gruppi religiosi e capi tribù.
Il colpo di stato del 25 gennaio 1913 , che istaura un partito unico, lascia campo libero al Comitato Unione e Progresso e favorisce la radicalizzazione della direzione dei Giovani Turchi. Le guerre dei Balcani che hanno visto i paesi balcanici infliggere un’umiliante sconfitta alle forze ottomane, hanno provocato una crisi morale e privato il Paese di interi territori, favorendo la presa del potere da parte dei gruppi più radicali.
Come per tutti i genocidi del ventesimo secolo, la guerra costituisce la prima condizione della messa in piedi di una politica sistematica di sterminio. Durante la prima guerra mondiale si compie infatti nell’area dell’ex impero ottomano, in Turchia, un genocidio pari ai due terzi degli Armeni dell’Impero Ottomano, circa 1.500.000 di persone. Numerosi furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem.
Le motivazioni sono imputabili a più fattori. Primo tra tutti un tentativo di omogenizzazione etnica e religiosa da parte dell’impero ottomano. Le presumibili richieste di autonomia da parte della popolazione armena, di religione cristiana, avrebbero potuto costituire un ostacolo al processo governativo dei Giovani turchi, intenzionati a una riforma dello Stato su base nazionalista, nel quadro del panturchismo, ovvero l’unione di tutti i popoli turchi, ancora oggi abbastanza forte in Turchia, nel Caucaso e in Asia Centrale.
Ad oggi, la dissoluzione della popolazione armena fatica a trovare unanime riconoscimento, nonostante i pareri concordanti, sul piano internazionale, di ventuno Stati (tra cui il nostro Paese) che hanno ufficialmente categorizzato gli eventi come “massacro”, istituendo inoltre una giornata commemorativa (24 aprile).
Recente è la polemica tra lo Stato del Vaticano ed il Governo di Ankara, in seguito alle parole proferite dal pontefice in vista della suddetta ricorrenza. A dimostrazione dell’ostinata politica negazionista del governo turco, si aggiunga che in quel Paese “parlare di genocidio” è tuttora punibile, ai sensi dell’art. 301 del codice penale, con severe pene detentive.
La questione del riconoscimento ufficiale è il muro divisorio tra le relazioni diplomatiche tra Armenia e Turchia. «Il riconoscimento del genocidio non è un tributo del mondo al popolo armeno e ai suoi martiri, è il trionfo della coscienza umana e della giustizia sull’intolleranza e l’odio», ha dichiarato il presidente armeno Serz Sargsyan in occasione delle commemorazioni per il centenario del massacro.
Sembra dunque che il presidente turco Erdoğan sia l’unico ad insistere in questo esasperato negazionismo, ma nell’aria non sembrano profilarsi aperture verso una, anche se formale, richiesta di perdono.
In questa direzione marcia il fronte compatto, costituito dagli Stati che ne incitano l’avvicinamento, convinti che di genocidio si debba parlare. Ed ecco perché l’esposizione ad Hotel de Ville si colloca nella posizione di voler offrire una sintesi della storia armena in relazione alle violenze subite e alle conseguenze che queste azioni hanno prodotto. Un cammino verso il superamento delle violenze, a partire dal potere incontrastato della memoria.
Francesca Mancini