Il film: Youth-La giovinezza

youth_giovinezzaTra le montagne di Kandersteg, in quel di Berna, due ottantenni, l’uno regista, l’altro famoso direttore d’orchestra, passano le loro vacanze tra relax, riflessioni sull’età, progetti sul futuro, incontri.
C’è una frase assai simpatica di Paolo Sorrentino, regista e sceneggiatore del film (ITA-SVI-UK-FRA, ‘15), che ne identifica l’atmosfera creativa: «Io sono vecchio dentro. Da una vita». Quindi possiamo dire che il film è il bilancio che il regista pone in essere rispetto all’invadere del tempo nella sua anima. Egli ha detto nella stessa intervista che si domandava da giovane quanto tempo gli restava da vivere: ne era ossessionato. Ora è come se avesse posto una “piacevole distanza” tra questo tempo e la vita presente.
Sorrentino affronta la tematica del tempo con un approccio profondamente concettuale. Cioè, si è sforzato di andare a rintracciare nella sua anima la parte attiva che è consapevole del bussare dei rintocchi, lenti e pulsanti, che ci ricordano la nostra estinzione. E l’ha fatto creando un’atmosfera di pura innocenza di ricerca.
Nelle montagne “vergini” di una simil-Davos, dove cercano rifugio e conforto due maturi-innocenti di 80 anni investigano su se stessi, come specchiandosi in quell’aria rarefatta, simbolica presenza di un limbo gassoso, che può essere contemporaneamente crepuscolo e aurora. Camminano per queste vallate aperte, s’inerpicano anche con fatica lungo sentieri innevati, per dialogare. Anzi, più girano e più sommuovono l’oblio che li ha portati a questa innocenza ormai incolpevole e monda di tutti gli egoismi e le sofferenze che hanno potuto arrecare.
È un’innocenza ritrovata. Chi è anziano è “di nuovo” innocente, come il giovane protagonista Hans Castorpche cercava se stesso alla vigilia della I guerra mondiale nel romanzo di Thomas Mann “La montagna dell’incanto”: e Davos  è quel sanatorio dove il protagonista si è venuto a curare. E credo che questo sia un riferimento inseguito.
È un film che rintuzza la morte; la previene, l’affronta. E, tra i due, il vincente in questo scontro è proprio colui che meglio e con più chiarezza va a fondo dei suoi limiti, cioè il Maestro (Michael Caine): li accetta. E pur senza compiacersene elabora uno sforzo incredibile per farvi fronte: di sincerità, di tranquilla e sofferta accettazione dei suoi torti. A differenza dell’altro coetaneo (Harvey Keitel), che come regista vorrebbe fare un film-testamento, un “capolavoro definitivo”, ma che è solo un tronfio e impotente tentativo di eludere l’attuale mancanza di ispirazione, ovvero di stimoli dalla vita.
Come il film di Moretti sul dolore per la morte dell’amata madre, anche questo si chiude, sostanzialmente e dialetticamente, sulla speranza. E il titolo, così ironicamente contrario, vuole mettere in evidenza come il conflitto tra l’esistere e il vivere la propria età – qualunque essa sia – in relazione ad un richiamarsi ad aspetti che solitamente si addicono alla giovinezza, tra i quali il più evidente è il desiderio, non solo erotico, ma esistenziale.
E l’incedere regale nella sua e assoluta e quasi drammatica onnipossenza, della bellezza di Miss Universo, la splendida Madalina Ghenea, come un’incarnata dalle acque, e matura Venere, ci ricorda come la passione possa essere nuova e purificante energia di vita. Lo stesso avviene tra i due anziani coniugi, che prima si erano schiaffeggiati, e poi ne sono travolti ai piedi di un albero. Ma anche l’enigmatica masseuse, col suo porsi come angelo della pace fisica, ma anche prepotentemente attiva e viva, imprime alla dialettica dell’esistenza, presente nel film, lo stringato simbolismo della rigenerazione della vita.
A differenza di Fellini, cui spesso è accostato, Sorrentino non si limita a “porre” il senso dello scorrere del tempo, magari con figurazioni di fascino misterioso, ma ne dà un’articolata scansione poetica. Lo affronta anche razionalmente: ricreando una magia che accompagna e illumina dal di dentro ogni singola fase riflessiva, che viene sempre rigorosamente sviluppata nelle sue articolazioni sia narrative che strutturali. Trovando sempre la geniale idea grafica che sottolinea lo sviluppo dei “viaggi” nell’anima di questi due fantastici giovani-vecchi.
Tra i due, è però Caine colui che sentiamo più scafatamente duttile: si è lasciato andare come un bambino in una cioccolateria di fronte agli stimoli che il regista ha saputo creare. E comunque si può essere vecchi “dentro” anche da giovani: come è per l’attore (Paul Dano) che prova “livore” e insoddisfazione per il successo avuto in film commerciali. Ciò è saggiamente messo in luce in quel bel dialogo con Miss Universo. Il che fa capire come, pasolinianamente,  Sorrentino non sia un moralista rispetto al successo popolare.
Benché l’autoralità del film sia assoluta e addirittura, per me, più intensamente emotiva di “La grande bellezza”, non si può sottacere il contributo del direttore della fotografia Luca Bigazzi. Non solo ha saputo trovare col regista un’intesa perfetta, come nel precedente film Premio Oscar, ma ha dato un contributo essenziale: la sua illuminazione ha i colori stinti, ma di forte chiaroscuralità, dell’evocazione dei sogni che vengono rivissuti nelle nostre fantasie. Così come i grandi spazi aperti vengono come “consumati dentro” da un’opacità sempre trascolorante.

Francesco “Ciccio” Capozzi