Brasile dei nostri giorni: Val è la matura governante di una ricca famiglia di Sao Paulo. Finalmente la figlia Jessica, che non vedeva da anni, viene nella metropoli per entrare nella difficile e prestigiosa FAU, la Facoltà di Architettura. E gli equilibri saltano …
Come è stato più volte detto, in Italia la stagione cinematograficavirtualmente chiude verso la prima metà di giugno. Ciò avviene con un’abitudine che distingue il nostro, anche tra i Paesi “del sole”, ovvero Spagna, Portogallo, Francia ecc.
È un vezzo maledettamente italiota. A nulla sono serviti i comunque intermittenti e incerti tentativi da parte delle Majors di rinfocolare i mercati: l’offerta, ovvero le sale, per quanto oggi tutte provviste di aria condizionata, smontano, e laddove restano aperte proseguono al risparmio e con svogliatezza.
Epperò tra i rimasugli in saldo, spesso si nascondono dei titoli belli e da vedere: e non solo per la gioia aristocratica e da puzza-sotto-al-naso dei cinefili duri e puri. È il caso di questo film (BRA, ‘15), approdato da noi grazie ad una serie di meritati riconoscimenti internazionali. Per quanto sia parte dei BRICS, i Paesi in ascesa quanto ad aumento del PIL, la cinematografia brasiliana, dopo la grande ondata riformatrice degli anni ‘60, non ha espresso titoli e autori adeguati al suo peso, essendo un mercato di 200 mln di spettatori, con rilevanti agganci in Europa e in Africa. Oppure sono stati incardinati ad Hollywood, perdendo originalità e smalto autorale. A differenza, ad esempio, di qualche regista messicano che, pur a Hollywood, è riuscito a mantenere il suo status di autore.
La regista-sceneggiatrice è Anna Muylaert, che ha maturato una solida e vasta esperienza professionale ma anche di critica e storica del cinema, inizialmente come sceneggiatrice, poi come regista e produttrice tra cinema e tv: del resto uno dei produttori del film è la divisione cinema della famosa Rede Globo, che ha inventato le Telenovelas, poi raggiunta e surclassata da producers messicani, colombiani, ecc.
E il film ha questo imprinting televisivo: lo dico – voglio aggiungere – senza alcun tipo di menda. Anzi: a sottolineare come sia possibile fare film eccellenti, sviluppando elementi di linguaggio propriamente cinematografici, all’interno di coordinate espressive che siamo soliti attribuire alle varie e numerose sintassi televisive.
Posto che si possa parlare ancora di netta differenziazione tra i due media, come le tv series (ormai puro cinema) ci stanno dimostrando. Il lucido benché nonuagenario (beat’a isso!) Gian Luigi Rondi ha parlato di atmosfere narrative che ricordano il neorealismo intimista di Luciano Emmer. Concordo in pieno.
Da una parte, una storia di sentimenti basic, come il rapporto tra madre e figlia, la contraddizione tra l’affermazione individuale e le responsabilità materne, ecc.
Dall’altra la percezione sociale delle reali stratificazioni di classe, per quanto in contesti non apertamente ostili. E questi nuclei di riflessione appaiono rigorosamente calati nei percorsi di delineazione psicologica dei personaggi. Cui mettono capo i dialoghi chirurgicamente precisi, volti cioè a disvelare senza affermare, ma “solo” attivando le dinamiche comportamentali dei protagonisti di fronte alle situazioni date.
È un maledetto lavoro di cesello. È una commedia che sfiora il dramma: sotteso ma non gridato. È tutto un gioco di rimandi e rimpalli psicologici. Vi sono citazioni colte: la ragazza parrebbe avere la stessa portata dirompente del protagonista del pasoliniano “Teorema”, ma la regista, genialmente, usa questo richiamo per prendere in giro la pochezza del capocasa, sedicente artista, ma in realtà parassita sociale.
Più ambigua e determinata è la padrona di casa: pur non pronunciando una sola aperta parola ostile contro la ragazza è quella più sordidamente e ipocritamente preoccupata ed è tutto un gioco di sguardi e sottotoni. L’attrice KarineTeles, a dispetto della sua stazza, è leggera e cattiva.
E, in generale, sono tutti attori bravissimi che vengono dalla tv. Famosa in patria e nel Sud America è la stagionata, simpatica e vitale protagonista Regina Casé. Così anche il ritratto di Jessica, la figlia, è ricco di sfumature e contrasti: da una parte è socialmente libera, per cui coglie e non accetta la coltre di ipocrisia schiavile che copre l’apparente affettività nei confronti della madre. Dall’altra è anche un’adolescente, ribelle perché spaventata e desiderosa di comprensione e affetto.
Questo doppio registro è tenuto in piedi con ferrea determinazione; che sa essere flessibile e incontrare la liberazione dei sentimenti nel riuscito effetto mélò del finale.
Francesco “Ciccio” Capozzi