Nel Parco Jurassico più famoso del mondo si vuole far tornare l’interesse della novità grazie alla creazione di Indominus Rex, una filiazione del T-Rex, però geneticamente riformulato: qualcosa che nemmeno esisteva nella sua era. Soprattutto pensando di controllarlo: da qui i problemi …
Steven Spielberg è tornato. Questo è il refrain che ci riporta il film. Anche se nominalmente solo come produttore esecutivo, è lui il primum movens e coordinatore creativo e produttivo del film (USA-CINA, ‘15), mentre il regista è Colin Trevorrow, che ne è stato anche sceneggiatore con Rick Jaffa e Amanda Silver – che insieme hanno creato lo script dei nuovi, eccellenti reboot della saga di “Il Pianeta delle Scimmie” – e Derek Connolly, che invece è lo sceneggiatore di fiducia del regista.
Dopo 21 anni dal primo “Jurassic Park”, qui esplicitamente e malinconicamente richiamato come un qualcosa che appartiene ad un lontano e struggente ma non inutile passato, e dopo 14 dal colossale flop, sia artistico che commerciale di “Jurassic Park III” , Spielberg ha trovato un’idea che fosse confacente alle sue tematiche ispirative, che hanno sempre una sottotraccia etica.
Un’idea che gli permettesse anche di sviluppare dal punto di vista spettacolare il plot. Quello di stupire per attrarre nuovi visitatori, sfidando con irresponsabile leggerezza ogni codice e freno che possa esserci in nome dell’etica, al solo ed esclusivo fine di incrementare i profitti con qualunque mezzo lecito e illecito, è il tema che agita il film.
È chiaro che è un politically correct, cioè un’idea largamente condivisa, magari sotto una patina di conformismo culturale: ma questo è uno dei miracoli di Hollywood. Per cui un’idea astratta, come la considerazione delle leggi della bioetica ed il dibattito da esse sotteso, diventa spettacolo ma anche oggetto e ispiratore di un impressionante e coinvolgente momento di condivisione collettivo.
Perché non c’è dubbio che il film funzioni. Costato una cifra tra i 150 e i 190 mln di USD, e uscito quasi in contemporanea da noi e in USA, ne ha già incassati più di 200 in pochi week end.
E il punto di forza è proprio la creazione di questo creatura geneticamente modificata di Indominus Rex. Mentre nel primo i protagonisti indiscussi erano il T-Rex e i Velociraptor, creature che esistevano ai tempi giurassici, ora lo è questo neoibrido: la forzatura è massima.
È un dato concettuale che nella sua assurdità innanzitutto è plausibile, dal punto di vista di una para-ricerca simil-scientifica, ma soprattutto funziona dal punto di vista drammaturgico. Questo lucertolone narrativamente fa andare avanti il film: cattura la nostra attenzione e scuote – come ogni Gozilla che si rispetti – le nostre più ataviche paure.
Perché, poi, in effetti, il film classico giapponese “Gozilla” (1954) è apertamente richiamato. Infatti c’è lo scontro finale tra il “classico” T-Rex e questo feroce predatore cannibale senza nome. Ma anche i Velociraptor cambiano, perché si cerca addirittura di addomesticarli e renderli dei personaggi attivi. Del resto la loro rappresentazione è molto accurata perché sono “interpretati” da attori umani, le cui movenze sono catturate digitalmente in CGI. E interessante spettacolarmente è il loro dialettizzarsi col protagonista, il pimpante e travolgente Chris Pratt.
Le atmosfere narrative, grazie alla presenza dei bambini ospiti che casualmente entrano in collisione col tutto, sono rispettate nella crescita della suspense. Non manca, come in “Alien”, lo zampino di soggetti che vorrebbero strumentalizzare a fini militari quanto prodotto dalla genetica, sempre per motivi di bieco profitto.
Dal punto di vista grafico, c’è l’efficientissimo, veloce montaggio curato da Kevin Stitt, uno dei più solidi di Hollywood, che ha lavorato in molti riusciti blockbusters, e che ha messo insieme una serie infinita di particolari orripilanti, in una miscela mozzafiato.
La fotografia è assai ben curata nelle diverse sfumature di foresta ed è di John Schwartzmann, tra i più quotati ad Hollywood.
Ma a parte questi due fondamentali ruoli i veri protagonisti sono gli effetti visuali speciali, i VFX, creati da compagnie altamente specializzate, come la ILM, la Image Engine ( Martin “Moose” Culpitt), la Hybride (Joseph Kasparian e Philippe Théroux), Stereoscopics (KatherineRodstbrooks), i cui supervisori , sommariamente indicati tra partentesi, hanno creato il miracolo di come la spudorata menzogna, addirittura post-fantascentifica, possa diventare uno spettacolone e riuscire a contenere anche risvolti da favola morale, nel più pretto stile yddish-spieberghiano.
Francesco “Ciccio” Capozzi