PARIGI (FRANCIA) – Ad inizio ventesimo secolo, in un’epoca di grandi transizioni storiche, le arti decorative italiane si trovano ad ereditare un’importante tradizione artistica e artigianale, facendosi, allo stesso tempo, portavoci di un’istanza di rinnovamento, quasi un’esigenza di valicare le linee tracciate dal classicismo, per imporre una maniera italiana, innovativa ed identitaria, ispirata ai nuovi canoni di progresso e accelerazione.
L’industrializzazione, che rende diseguali economicamente e culturalmente le regioni italiane, influenza anche la nuova maniera d’intendere l’arte nella sua distribuzione geografica: è nel Nord del Paese che l’accostamento alla modernità da parte di artisti e artigiani appare più massiccia e rilevante.
Le correnti artistiche che si susseguono velocemente nell’arco di un quarantennio (1900-1940), e che interessano dunque (salvo alcune eccezioni) la parte settentrionale del nostro paese, costituiscono il focus di un’esposizione al Museo d’Orsay di Parigi, che s’inserisce in un clima di forte riscoperta della cultura artistica italiana, che vede protagonisti alcuni dei maggiori spazi espositivi della capitale francese.
La mostra dal titolo “Dolce vita?” s’interroga, attraverso un itinerario che a partire dal Liberty giunge sino alla nascita del design italiano, sull’esistenza di una fervida attività creativa che si sviluppa intensamente, pur nel corso di un periodo storico tra i più drammatici ed oscuri conosciuti dalla nostra storia fino ad ora. Il quadro a tinte fosche delineato dalla compresenza di guerra e dittatura non occlude le vene artistiche dei pittori, degli scultori e degli artigiani, che animano culturalmente il Bel Paese, malgrado le evidenti difficoltà correlate a quest’epoca storica.
E come sia possibile che il clima turbolento che aleggia intorno ad nazione che si avvia verso la catastrofe non impedisca il proliferare di una creatività eccezionale, è proprio quello che si sono domandati i curatori di questa mostra, che hanno utilizzato l’espressione felliniana “dolce vita”, accompagnandola ad un punto interrogativo, per sottolineare come una dolce vita fosse esistita in Italia anche prima che Fellini ne coniasse la definizione negli anni Sessanta.
Le cinque sale allestite per l’esposizione sono dedicate ognuna ad un preciso movimento artistico e si dispongono lungo una linea cronologica continua. L’ingresso è dominato dal manifesto della prima Esposizione Internazionale di Arte decorativa (Torino), realizzato da Carlo Bugatti. Siamo in pieno periodo giolittiano (1902) e il clima di generale ottimismo, sintomatico del crescente sviluppo della produzione, favorisce e determina il dinamismo delle arti. L’Art Noveau prende in Italia il nome di Liberty, corrente che anticipa la nascita del design vero e proprio. Lo stesso Bugatti realizza mobili dalle forme fantastiche e zoomoforme, mentre motivi floreali e più in generale il fascino suggerito dalla natura si traduce in dipinti che si ispirano al simbolismo europeo. Parallelamente a questo nuovo movimento, si sviluppa la corrente artistica “divisionista”, già affermatasi nell’ultimo decennio dell’Ottocento: i pittori scompongono i colori secondo un criterio di separazione delle tinte complementari.
Tra i più influenti divisionisti, si distingue Giovanni Segantini. Grazie al prestito temporaneo della Galleria d’arte di Milano, “L’amore alla fonte della vita” (1896) è collocato all’interno della seconda sala. Il quadro esemplifica i procedimenti comuni ai pittori che si uniformano a questi dettami: lo sguardo rivolto alla poetica simbolista e la tecnica di scomposizione dei colori puri applicati sulla tela sono tra i procedimenti maggiormente impiegati. Oltre a Segantini, Gaetano Previati e Giuseppe Pellizza Da Volpedo (noto soprattutto per il celebre “Quarto Stato”) aderiscono inizialmente a questa corrente.
Un ulteriore spazio è consacrato alla tecnica artigianale della lavorazione del vetro, attiva soprattutto nella città di Venezia, che accoglie la Biennale d’Arte, a partire dal 1893. Tra i mastri vetrai, di cui è possibile ammirare le opere, risale agli anni Dieci l’esordio artistico ed artigianale di Vittorio Zecchin, nativo di Murano. Egli espone alla prima biennale alcune opere in vetro dal gusto classicheggiante e dai colori tenui e leggeri. È del 1914 il monumentale ciclo decorativo intitolato “Le Mille e una notte”, realizzato per l’Hotel Terminus di Venezia, che diverrà ben presto l’emblema dello stile liberty veneziano.
Anche a Firenze, Faenza e Roma, grazie alla creatività di alcuni artigiani, si fa strada uno stile liberty, dai tratti autonomi e particolari, imputabile alla fantasia dei singoli artisti.
La mostra prosegue con l’avvento del futurismo. Le “parole in libertà” del movimento fondato da Filippo Tommaso Marinetti e stilato nel manifesto del 1909, si materializzano in opere bizzarre e rivoluzionarie, esemplificative di tale avanguardia. Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Gino Severini aderiscono al progetto di Marinetti, realizzando dipinti e sculture che privilegiano il dinamismo, l’accostamento di colori forti e decisi e di forme a più dimensioni che segnano una rottura violenta con il “passatismo” della tradizione, delle accademie e dei musei.
Il dipinto di Umberto Boccioni “Visioni simultanee” (1911) esposto nella prima mostra futurista a Parigi nel 1912, e custodito nel Museo Van Der Heydt di Wuppertal (Hannover) ritorna nella capitale francese, proprio in occasione dell’esposizione “Dolce vita?”.
Già il titolo della tela indica la compresenza di diverse prospettive. Visibile al centro della scena è una donna, affacciata ad una finestra. Lo scopo del quadro è raffigurare contemporaneamente la donna, il suo campo visivo e quello dell’ipotetico spettatore che la osserva dall’alto. Boccioni utilizza colori sono decisi e innaturali, per aumentare la forza espressiva, mentre il tratto e le forme scomposte si situano al limite dell’astrattismo.
Alcuni anni dopo, nel 1917, l’incontro del pittore di origine greca Giorgio De Chirico con Filippo de Pisis e Carlo Carrà all’ospedale militare di Ferrara, anticipa e promuove la nascita della “Metafisica”. Contrapposta al futurismo e anzi intenzionata ad intessere un rinnovato dialogo con il gusto classicheggiante, questa corrente non si traduce in una mera ripresa dei modelli classici, decisi a superare le novità apportate dalle avanguardie, ma riflette sull’arte attraverso l’accostamento di oggetti antichi ad oggetti quotidiani, creando associazioni disattese, in apparente contrasto tra loro.
Anche Giorgio Morandi aderisce inizialmente alla poetica messa a punto da De Chirico. La sua “Natura Morta (metafisica)” (1918) esprime una “metafisica degli oggetti comuni”. Il dipinto mostra oggetti semplici ed apparentemente in antitesi, che sembrano stabilire tra loro un dialogo sommesso: una bottiglia, una pipa, una scatola e un manichino appoggiati ad un muro e pochi colori che ne enfatizzano la domestica semplicità.
A partire dalla metà degli anni Dieci, alcuni artisti riscoprono il valore della tradizione e la lezione dei maestri del passato. La “Silvana Cenni” di Felice Casorati è il manifesto di quel clima di “ritorno all’ordine” che si diffonde a macchia d’olio in Europa. Nel 1922 nasce appunto il movimento “Novecento italiano”, sostenuto dall’illustre critico d’arte Margherita Sarfatti, destinato a divenire l’espressione ufficiale del regime fascista. Questo linguaggio “concreto e definitivo” è affiancato, però, da un’istanza di “realismo magico” perseguito in letteratura da Massimo Bontempelli. Tra i maggiori interpreti in ambito pittorico, Antonio Donghi, ricrea interni domestici con personaggi immersi in un contesto borghese e ordinario.
Ancora nel 1926, un gruppo di architetti lombardi fonda il movimento “Gruppo 7”. Essi realizzano in particolare mobili lineari e stilizzati, privi di qualsiasi decorazione, che contribuiscono a dar vita al movimento razionalista italiano. La quinta ed ultima sala della mostra mostra così un’arte pura e razionale che costituisce la premessa del neonato design industriale.
L’esposizione rende giustizia, di fatto, allo stile italiano, destinato ad avere lungo ed influente seguito in gran parte d’Europa. Nell’arco di questo quarantennio la creatività, l’avanguardia ed il ritorno all’ordine si susseguono con la massima disinvoltura. La mostra è inoltre complementare a quella dedicata ad Adolfo Wildt che trova spazio all’interno del Museo dell’Orangerie. Tale forte interesse per l’arte pittorica e sculturea italiana, il cui fulcro si situa in queste due importanti esposizioni, si conferma e si rafforza grazie ad ulteriori e numerosi eventi minori, come concerti, workshop, conferenze e rassegne cinematografiche.
Francesca Mancini