Il film: La regola del gioco

regola_giocoReagan, anni ‘80: il Congresso rifiuta i soldi per armare i contras, i ribelli antisandinisti, in Nicaragua. La CIA, con l’avallo della Presidenza, diventa complice e organizzatrice degli spacciatori di droga, inondando la California del sud di crack a prezzi stracciati, per miliardi di dollari. Gary Webb, giornalista di un quotidiano di provincia, denuncia il misfatto nel 1996. Ma, dopo una insidiosa campagna di delegittimazione personale, isolato anche dall’invidia e gelosia professionale, misteriosamente “si suicida”.
Ecco un film profondamente  “democrat”, come si facevano egregiamente negli anni 70, ma con più ricchezza e concisione di denuncia; e che rendevano molto alto il livello di “democrazia praticata” negli USA, nonostante i numerosi aspetti autoritari perfino e liberticidi di quel paese.
La vicenda, vera e documentata, su cui scrisse nel ‘99 libro “Dark Alliance” che comprendeva i vari articoli usciti sul San José Mercury, non valse a mantenergli il posto nel giornale: se ne allontanò nel 1997. Nonostante che Webb avesse già nel 1990 vinto il Premio Pulitzer, e che le conferme alle sue denunce furono gli importanti e definitivi audit della CIA al Congresso durante la Presidenza Clinton (anni ‘90), è solo grazie a questo film (USA, ‘14) e a qualche altra testimonianza, come il libro di Nick Schou, “Kill the messenger”, che viene resa definitivamente giustizia a questo grande reporter.
Il pensiero da spettatore non può non andare, quasi in visualizzazione mentale “contemporanea” nel mentre vediamo il presente titolo, a “Tutti gli uomini del Presidente”, un film epocale del ‘76, di Alan J. Pakula. Sono simili lo stile libertario; il gusto per la scoperta della democrazia della stampa; e anche il senso generale della narrazione, sodo e diretto, che “spiega” senza attardarsi in concioni, ma solo facendo “respirare” l’azione, distendendola in un flusso continuo di immagini-narrazioni di per sé evidenti e avvincenti.
Ma questa qualità è in capo alla sceneggiatura, scritta da Peter Landesman. Costui, oltre ad essere coproduttore del film, è anche una specie di “fratello d’arme” di Webb, perché è anch’egli un giornalista investigativo, che ha girato il mondo in lungo e in largo sottoponendo ai raggi X diverse realtà conflittuali, smascherandone le implicazioni con i traffici di armi, di droga, opere d’arte, schiavi ecc.
Il regista è Michael Cuesta, newyorkese di provenienza latina di terza generazione. Lui e lo sceneggiatore hanno saputo stare a fianco del protagonista, sia cogliendo le fasi della “scoperta” iniziale – che gli viene fatta fare per favorire un narcos e farlo liberare in nome di quella criminale e pelosa “Sicurezza nazionale”, che diventava complice dei narcotrafficanti del Salvador – sia nel darci, per veloci e riuscitissimi “squarci” documentari, le implicazioni sociali e conseguenze devastanti di questa invasione del crack e della coca a prezzi stracciati. Ma anche nel darci l’umanità di Gary, il suo essere attraversato dal dubbio e dalla paura, e nei suoi rapporti, piuttosto difficili, con la moglie.
Tuttavia, gli autori mettono intelligentemente e miratamente in luce anche numerose differenze dal film di Pakula. I due leggendari giornalisti, interpretati dai fascinosi e glamourissimi  Robert Redford e Dustyn Hoffman, erano sostenuti dal Washington Post, che è non solo un influente e prestigioso quotidiano nazionale ma come il New York Times un vero e proprio blocco di potere nell’orientamento nazionale del pubblico, tipo “Repubblica” o “Il Corriere della Sera”. Qui invece è un medio giornale regionale, incerto e ondivago nella sua linea e nei suoi pubblici. Inoltre, il competere con la CIA degli anni ‘80/’90, quella stessa agenzia che poi nel 2003 costruirà la bufala planetaria delle “armi di distruzione di massa” detenute dall’Iraq, era molto più arduo e difficile che farlo negli anni ‘70, ai tempi del Watergate.
E il film “tiene” insieme tutte queste realtà concettuali affidandosi ad un procedere costante e sicuro di narrazione: in cui i singoli spazi tematici, molto chiari nella loro configurazione, sono incastrati l’uno nell’altro in modalità anche avvincenti. Oltre allo sceneggiatore, è da sottolineare il merito artistico-professionale del montatore, anch’egli newyorkese e dello stesso gruppo dei due prima citati: Brian A. Kates, che ha una vasta esperienza tra cinema di realtà e tv fiction. È suo il merito nell’aver saputo dare quella patina di realistica documentatività, sapendo inserirvi brani, immagini dell’epoca. E la patina visuale generale degli anni ‘90 è suggerita dalla cromaticità della foto, curata da Sean Bobbit.
Da lodare il protagonista, anche produttore, Jeremy Renner: ha dato un temperamento deciso, affettuoso ma anche fragile al suo Gary.

Francesco “Ciccio” Capozzi