NAPOLI – Il Napoli Film Festival, la rassegna cinematografica giunta quest’anno alla sua diciassettesima edizione, è iniziato con un grande evento: lunedì 28 settembre al Cinema Metropolitan in via Chiaia nell’ambito della rassegna “Incontri ravvicinati” rendez-vous con il regista Mario Martone, intervistato dal direttore del Corriere del Mezzogiorno Enzo d’Errico.
Martone, sollecitato dalle domande di d’Errico, ha ripercorso analiticamente la sua carriera e le sue esperienze cinematografiche per fornire al pubblico del Napoli Film Festival un quadro unitario, da cui sono emerse con particolare chiarezza le suggestioni e le influenze della letteratura, dell’arte e del teatro di cui si nutre la sua fitta filmografia.
Il regista di “Il Giovane Favoloso” (‘14), sua ultima fatica cinematografica che ha riscosso notevole successo di critica e pubblico – ma che è stato estromesso dalla candidatura al Premio Oscar in favore del film postumo di Claudio Caligari “Non essere cattivo” – ha riproposto una lettura della vita del poeta di Recanati inedita e stimolante, accordando maggiore importanza agli aspetti più intimi e sofferti della sua autobiografia.
Martone ha dichiarato che tutti i film che ha realizzato possono essere letti in chiave “leopardiana” perché spesso i protagonisti sembrano attraversare una prima fase di illusione e di passione, seguita da una rapida e drammatica disillusione. Il fallimento è sempre in agguato, e la parabola ascesa/discesa segna un doppio movimento che è facile ritrovare anche altrove nella sua filmografia.
Stupisce il modo in cui, nella sua linea autoriale, è facile attribuire un posto prioritario al rapporto tra uomo e città e alla metropoli in senso stretto. Particolare che non è sfuggito a d’Errico, che ha sottolineato quanto sia visibile, alla luce della filmografia di Martone, il cambiamento che sembra attraversare Napoli, un mutamento che costituisce il sottotesto di molte delle storie scelte dal regista partenopeo e ambientate in questa città. Dalla dominazione e repressione borbonica nel 1828 in “Noi credevamo” alla fine degli anni ’50, che fanno da sfondo alla vicenda intellettuale di Renato Cacioppoli in “Morte di un matematico napoletano”, c’è qualcosa che ritorna.
Il senso della fine di un’epoca che conclude drammaticamente periodi alimentati da “eroici furori” e vitalistici impulsi. In questo discorso si inserisce anche il bistrattato dalla critica “L’odore del sangue”, tratto da un romanzo di Goffredo Parise.
Martone spiega come in questo romanzo – come anche in “Petrolio” di Pasolini, usciti pressappoco nello stesso periodo – negli anni ’70 in Italia, periodo di profondi sconvolgimenti politici, ma anche di profonde trasformazioni socio-culturali, si trovi tratteggiata a tinte forti, la parabola di un periodo rivoluzionario che segna un punto di rottura irreversibile.
«Oggi viviamo un tempo dopo quel naufragio, dopo quegli anni violenti. Siamo scottati dal grande incendio che Parise e Pasolini sono stati in grado di raccontare. Viviamo in un tempo guardingo, in cui stiamo come sommersi, forse impauriti dal dinamismo, ma spaventati anche dal silenzio».
Dalla prestazione di Carlo Cecchi in “Morte di un matematico napoletano” alla recentissima prova attoriale di Elio Germano in “Il Giovane Favoloso”, la regia di Martone spesso si accompagna ad ottime interpretazioni recitative.
Enzo d’Errico ha interrogato il regista circa questa sua capacità elettiva, chiedendogli di raccontare il modo in cui è solito lavorare nel dirigere gli attori. Martone ha parlato dell’importanza che in questo campo riveste proprio la sua lunga esperienza in teatro, dove si lavora molto alla costruzione di un personaggio che non si discosti molto dalla realtà della persona che ne riveste il ruolo: «La prima cosa che cerco in un attore, o in un’attrice è quello che cerco anche in attori non professionisti, ovvero l’elemento di verità. Non solo solito “forzare” l’attore ad una impostazione. So che l’interpretazione deve nascere nell’attore, per cui cerco di creare un campo che sia il più giusto possibile affinché gli attori vengano spinti a trovare la forza nell’interpretazione».
A seguire, si è svolta la proiezione del cortometraggio di 19 minuti “Pastorale Cilentana”(‘15) che ha co-diretto insieme alla moglie Ippolita, e che è stato pensato per il padiglione zero dell’Expo Milano 2015 e del lungometraggio “L’amore molesto”(1995), vincitore di tre premi David di Donatello.
Francesca Mancini