In uno scenario da tregenda in cui la Peste fa da prima donna, tutto è buio, tutto sa di marcio con i monatti , sudici, luridi nel pensiero e nei fatti che reggono il primo piano in uno spettacolo che nessuno vorrebbe solo immaginare. Eppure, in tanto marciume pestifero un raggio di sole fa balzare il primissimo piano uno spettacolo di delicata fattura e di una soavità, purtroppo mortale, che trascende ogni immaginazione e penetra nello scrigno dei sentimenti in modo definitivo e siamo lì, a leggere, una parola dopo l’altra e ci ascoltiamo come potremmo fare con un ruscello di acqua pura che scorre in un rivolo dal suono dolce e soave delle cose belle, dai suoni sommessi e sussurrati da una musica eccelsa.
” Scendeva da uno di quegli usci … “ E’ la luce che illumina e rende dolcissima anche la morte, il bianco delle vesti fanno ancor di più risaltare di rimbalzo quello che gli occhi indovinano nella luminosità stessa che avvicinandosi vince l’orrore della morte fra i corpi buttali lì, uno sull’altro in una orrenda contaminazione di immobilità senza vita, senza pudore umano, senza il rispetto di una vita che fu, in una mescolanza di carne putrida e irrigidita dall’abbandono della forza vitale.
Che dolcezza in quel viso ormai senza più lacrime, che soavità in quel braccino che pende inerte su un fianco e che, dondolandosi in un movimento mortale, segue l’incedere di una mamma stracciata dal dolore ma che conserva una dignità che va al di sopra di ogni realtà. Il dolore di una mamma! Non c’è immaginazione che tenga, non è solo la morte della carne, è la morte del cuore, dei sensi che non vivono ma vegetano soltanto, è la vita che fugge, che si allontana, è il frutto della propria carne, del proprio amore che si distacca definitivamente. «Addio, Cecilia !!!» Sì, addio anche da parte mia, ma con le lacrime agli occhi.
Credo che è difficile per tutti tenere il proprio cuore insensibile a fatti del genere ma in particolar modo per coloro che hanno sofferto un dolore simile. Mi sono giustificato, credo!
Un’osservazione sarebbe perfetta, avendo trascurato di annotare un sentimento che era importantissimo nel quadro generale rappresentato nella tragedia descritta dal Manzoni, se non avessi tenuto in alcun conto quello che invece il Manzoni stesso voleva evidenziare maggiormente.
Un monatto che crea ribrezzo al solo pensarlo non solo per il suo aspetto cencioso e lurido ma per quello che fa e che, si pensa, non conservi in sé un minimo di sentimento, neutralizza quasi del tutto la sua putrida indifferenza e si china rispettoso dinanzi all’immagine di un dolore così espresso in un’eterea trasparenza e ucciso, trapassato da una morte irrazionale e sconvolgente. E la figura del monatto che corre a creare un posticino, tutto per la creaturina ormai abbandonata dal vigore della vita, ed i gesti quasi irreali compiuti dalla mamma nell’accomodare la piccola in un definitivo saluto alla vita e che si conclude in un bacio che è impossibile definire con una “aggettivazione” che non esiste, non può esistere nel vocabolario degli uomini.
E la dignità di una mamma che compiuto il suo dovere terreno con una tenerezza inimmaginabile, si scuote e pensa alla sua fine pensa a se stessa e nella certezza della morte richiede l’aiuto degli uomini a cui ha affidato la figlia ed a cui affida la sua persona quando questa avrà perduto il suo afflato vitale.
In tanta brutalità, in tanta quasi incredibile tragedia, balza perfino al di fuori di ogni immaginazione tanta tenerezza, tanta delicatezza di sentimenti, tanta amorevolezza che trapassa il cuore.
Prof. Sante Grillo