POMIGLIANO D’ARCO – Dopo undici anni, la città di Pomigliano D’Arco torna ufficialmente a festeggiare il suo Carnevale tradizionale. L’iniziativa è stata promossa dal Sindaco Raffele Russo ed è stata accolta dai due pilastri delle tradizione popolare campana: Giovanni Sgammato e Angelo De Falco, con i loro rispettivi gruppi storici,“ ‘A Sunagliera” e “ ‘E Zezi”.
Coadiuvati dal “Gruppo Operaio” e da Marcello Colasurdo, dal 9 al 12 febbraio, questi emblematici nomi, con il loro seguito di giovani appassionati, faranno risorgere tipici spettacoli antichi e daranno vita ad esilaranti momenti carnascialeschi.
L’importanza di tali festeggiamenti potrebbe perdersi dietro l’ignoranza del loro ruolo nella cultura contadina pomiglianese. È bene, dunque, rivelare quanto l’antica tradizione tramanda.
Per la tradizione il Carnevale parte il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate, festività in cui tutto l’entroterra campano si illumina di tante fiamme e falò (i cosiddetti “fucarazzi” o “fucaroni”).
Attraverso il potere catartico del fuoco, i contadini si lasciavano alle spalle tutte le insoddisfazioni dell’anno precedente, lanciandosi in canti e balli liberatori con cui aprivano le porte all’anno nuovo.
Maschera tipica di questo giorno è la Vecchia ‘O Carnevale, raffigurante una vecchietta che porta sulle spalle Pulcinella. Questo personaggio ha due significati, come due sono le sue apparizioni: nel giorno dei “fucaroni” rappresenta la Befana con la quale entra il Carnevale; compare, però, anche il Martedì Grasso ed in questo caso simboleggia la Quaresima che lo porta via.
«Il Carnevale pomiglianese (come gran parte delle tradizioni che persistono tutt’oggi nell’entroterra campano) trae le sue origini dalla coltura della terra, scandita dagli inesorabili ritmi della natura» afferma Giovanni Sgammato, un vero e proprio maestro delle tradizioni popolari.
Nelle sfilate carnascialesche, infatti, si rinvengono due rappresentazioni fondamentali: i Dodici Mesi e La Canzone di Zeza. Nel primo caso, si assiste a dodici simpatici monologhi, recitati da altrettanti personaggi che raffigurano i mesi dell’anno e ne raccontano le caratteristiche dal punto di vista dei contadini.
Il secondo, invece, è un momento prevalentemente musicale, in cui si mette in scena la comica vicenda di quattro soggetti stravaganti che rappresentano ciascuno una stagione dell’anno: Pulcinella raffigura l’inverno, in quanto nella cultura contadina esso simboleggia la morte. « Il suo vestito bianco, infatti, ricorda la tunica che i più poveri solevano far indossare ai propri cari nel giorno dei funerali. Inoltre, sotto la maschera nera, la faccia di Pulcinella è bianca, proprio come quella di un defunto» fa notare Sgammato.
Vi è poi Vicenzella, la giovane figlia di Pulcinella, decisa a trovare un marito e a metter su famiglia scatenando la gelosia paterna, desiderosa di sbocciare come donna e, pertanto raffigurante la primavera. Segue, poi, Don Nicola, il focoso pretendente di Vicenzella, futuro pater familias e maschio di casa, cui spetta la raccolta nei campi, che avviene proprio nella stagione da lui rappresentata, vale a dire l’estate.
Infine, vi è il personaggio più divertente e scurrile, ossia la Zeza, la classica madre ignorante che non vede l’ora di maritare la figlia per garantirle un futuro. Essa raffigura l’autunno, stagione in cui si fanno le provviste per affrontare l’anno successivo.
Questo è il significato della Canzone di Zeza per i contadini. In realtà, essa nacque nel 1500, con la Commedia dell’Arte (periodo in cui fu inventata anche la maschera di Pulcinella). Era rappresentata da attori girovaghi che si esibivano per le piazze in scene goliardiche, generando ciò che veniva chiamata la “Zerzuela”(chiasso, baccano), da cui deriva il termine Zeza, appunto.
I contadini riportarono questo spettacolo nel loro mondo rurale per il semplice scopo di ridere a Carnevale.
«Il Carnevale, per noi, è sempre stata un’opportunità di liberazione dagli affanni e dalle pene della vita quotidiana – ricorda Giovanni Sgammato con un velo di malinconia – Per questo, i poveri si travestivano da ricchi e viceversa. I vestiti erano fatti di cartapesta, non come quelli di oggi, e tutti si mascheravano, dai bambini agli adulti. Era un momento di aggregazione e di esagerazione: tra le gioie culinarie e l’ebrezza del vino, ci si lamentava allegramente di tutto ciò che non si possedeva e si criticavano tutti gli esponenti delle classi sociali più in vista, dai medici, ai politici e ai notai».
Questo spirito satirico è rimasto nella rappresentazione delle Vedove del Carnevale che inscenano il cosiddetto “chianto a muorto”: il defunto è Pulcinella, che si è strozzato con una polpetta perché non abituato a mangiare tanto, ed è compianto dai suoi cari (uomini travestiti da donne) con buffi lamenti e osceni improperi, suscitando risate a crepapelle.
Tutti questi personaggi, e altri ancora, sfileranno per le strade e si esibiranno per le piazze di Pomigliano nei quattro giorni dalla mattina di sabato alla sera del Martedì Grasso, riportando alla luce il vero spirito del Carnevale partenopeo e donando a tutti gli appassionati la possibilità di ritornare bambini nella festa più colorata dell’anno e di riscoprire, tra una risata e l’altra, le bellezze della comicità dei tempi andati e la nobiltà delle più umili origini.
Claudia Buongiovanni
(Fonte foto: web)