Raimondo di Sangro, la vera storia


…  e un sereno pomeriggio del 6 luglio 1770, durante il felice Regno di Ferdinando IV di Borbone nella bellissima città di Partenope, meta di turisti provenienti da tutto il mondo, tra sontuosi palazzi spagnoleggianti edificati tra il 1300 e il 1400, tra gli orgogliosi e polverosi blasoni di marmo sui portoni o dipinti a colori sotto la volta degli androni, con un servidorame tanto pigro quanto troppo numeroso e in gran parte inutile, tra ricchi conventi e chiese … ma anche tra tanti bassi e vicoli stretti, tra altissime dimore patrizie e case di viva miseria.
Tutto tace nell’antico Palazzo dei Principi di Sansevero, costruito nel 1580 in piazza San Domenico Maggiore, di lato all’Obelisco della Peste, illuminato dalle cantine ai più remoti appartamenti con centinaia di candele accese su ordine del personaggio più misterioso di Napoli del ‘700, don Raimondo Maria de Sangro, settimo principe di Sansevero, di circa 60 anni d’età.
L’uomo con un braccio nudo e un ginocchio denudato, bendato, condotto per mano da monsieur Lambert, maggiordomo francese della Casa, attraversa un lungo corridoio tra busti e statue bronzee, su colonne di marmo, tra tappeti, arazzi, tendoni di velluto rosso, antichi quadri di famiglia, lungo una fuga di stanze e saloni del piano nobile, il primo piano padronale, e arriva all’appartamento detto della Fenice dai bellissimi balconi rimaneggiati nel 1735, composto da tre sale in restauro tra 1765 e 1767, dove trova posto la collezione delle scoperte scientifiche di Raimondo.
L’uomo viene fatto fermare e viene liberato dalla benda: guarda meravigliato due scheletri in armadi lignei con vetro realizzati da un falegname su commissione del principe tra 1763 e 1765, con le cosiddette macchine anatomiche, cadaveri umani esemplificati e metallizzati con iniezioni di sale di mercurio e di potassio.

Tale procedimento si doveva al medico Giuseppe Salerno, nato a Palermo nel 1728, docente della Facoltà di Medicina all’Università degli Studi di Palermo, specializzato in anatomia nel 1756 e in particolare in ricostruzioni di scheletri anatomici con scheletri umani, con l’ausilio di cere vegetali, fil di ferro, particolari sostanze metallizzanti, usati della Schola anatomica medica di Palermo.
Nel 1756 questa tecnica aveva destato l’interesse del marchese Fogliani, vicerè borbonico della Sicilia, e quindi del re Carlo III e dello stesso principe di Sansevero, figura di spicco tra i gentiluomini del sovrano nel 1758.
La prima costruzione a di un cadavere maschile metallizzato suscitò tanto interesse nel principe che prese il dottor Capurro a salario mensile con vitto e alloggio, sistemandolo a Napoli in via dell’infrascata, attuale via Salvator Rosa, nel palazzo vanvitelliano di proprietà del mercante Michele Capurro, in un appartamento in fitto al primo piano con cantina sotterranea.
Evitò così che il medico si trasferisse all’Universita degli Studi di Bologna nel 1763.
I due cadaveri delle macchine anatomiche sono di una donna di tipo berbero, marocchina morta di parto con accanto il cadavere pure metallizzato del feto, risalente all’anno 1763; quello dell’uomo è invece un algerino non più alto di un metro e settanta, dal ventre gonfio, privo degli organi digestivi come da mummificazione egizia, datato 1765.
Attraverso una porta che tramite il ponticello coperto dell’orologio costruito dal principe,che collega la Cappella gentilizia al vicino Palazzo Sansevero  – ponticello peraltro crollò nel 1889 – entrano due lacchè della Casa, in livrea grigioverde e parrucca grigio di Parigi con lumi doppieri nella mano destra e un pugnale nella sinistra.
Da quella porta, in un silenzio rotto solo dalla musica del Requiem di Pergolesi suonata da un organo, entrano dodici persone: don Felice Piccinini, don Giuseppe Salerno, don Pedro de Molina, don Marzio Carafa, il principe Carafa di Roccella, lo scultore e architetto Francesco Celebrano, l’abate Ferdinando Galiani, l’ambasciatore di Francia a Napoli, lord William Hamilton, ambasciatore inglese a Napoli dal 1760,venuto in sostituzione di lord Hardeness, l’amico del conte di Saint Germain, divenuto ambasciatore inglese a Venezia.
Ancora don Giuseppe Tommaso d’Aquino cadetto dei Caramanico, conte di Palena, e suo fratello principe Francesco, Cavaliere di Malta, iniziato alla massoneria siciliana dal 1764, membro della massoneria di Malta dal 1766, maestro iniziatico, con il nome di Altotas.
Entra dunque un uomo con cappuccio bianco e senza spada: è Raimondo de Sangro che ebbe la sua iniziazione nel 1741 a Napoli da suo cugino don Gennaro Carafa, iniziato a sua volta a Marsiglia nel 1737.
Gli altri undici hanno hanno invece cappucci neri; attorniano con spade fiammeggianti un uomo che chiede di essere ammesso alla Luce Osiridea della Scala di Napoli, ordine egizio arcana arcanorum o adonhiramita, regolato dal Sansevero e dal suo amico svizzero Tschudy nel luglio del 1750.
Raimondo poi ricoprì la carica di Sorvegliante di Loggia Scozzese nel 1745 e dal 1750 Gran Naestro nazionale della massoneria di rito scozzese del Regno di Napoli e di Sicilia fino al luglio 1751, quando si ritirò dalla prima per scegliere nel 1752 il rito egizia osirideo della Scala di Napoli.
Dunque, il 6 luglio del 1770 il neofita che chiede la Luce in Palazzo Sansevero è un uomo giovane e bello di Bari, simpatico, educato e gioviale, di famiglia umile:il suo nome è Luigi Marchesi detto Feliciano; per miseria i suoi genitori lo vendettero a imprenditori teatrali senza scrupoli che lo fecero “castrare” e studiare al Real Conservatorio di Musica dei Poveri di Gesù Cristo che si trovava al largo del complesso monumentale dei Girolomini: doveva diventare soprano teatrale.
Gli uomini incappucciati lo stendono a terra con le armi minacciose poste sul corpo e sul viso e comincia l’iniziazione.
Parallelamente alla vera storia della vita del Principe i vari pettegolezzi della servitù di Casa Sansevero cominciarono a diffondere tra il popolino analfabeta di Napoli la spaventosa diceria che Raimondo de Sangro fosse un uomo diabolico, ateo e negromante, massone e mago.
Si disse che dal 1745 in poi avesse ucciso più persone col veleno: due preti e sette cardinali, lo scultore veneto Corradini e il “castrato” Marchesi; che avesse poi fatto accecare il giovane artista Sammartino da tre suoi lacchè e inoltre che avesse fatto sparire misteriosamente l’amico svizzero Tschudy.
Per sfatare queste dicerie che angustiarono in vita il Principe e che ancora oggi persistono, per ridare dignità alla memoria di un illustre scienziato e letterato come Raimondo de Sangro, bisogna confutarli punto per punto con fatti storici, almeno con quelli che si sono potuti documentare ufficialmente.
Non si è potuto per il momento ritrovare conferme ufficiali per ogni singolo caso, ma già dovrebbero bastare quelle che riporto più avanti.
Non venne ucciso nessun cardinale o sacerdote sotto il Regno di Carlo II e di suo figlio Ferdinando IV di Borbone: il Cardinale Spinelli e i due sacerdoti, tra cui il Molinaro, vennero espulsi dal Re.
Spinelli morì in esilio a Roma nel1767; nello stesso anno venne espulso un altro nemico della scienza del principe di Sansevero, il padre gesuita Pepe, mentre Tschudy amico di Raimondo, venne colpito da una condanna per sobillazione nei confronti del Papa nel 1751.
Nascosto da Raimondo nel castello pugliese di Torremaggiore, Tschudy fu poi fatto imbarcare nel novembre 1753 su una sua nave per l’Olanda, dove prestò servizio miliare nella Campagna di Russia e di Francia; il celebre letterato morì di morte naturale nel 1769.
L’anziano scultore veneto Antonio Corradini morì invece amorevolmente assistito dal principe nel 1752; nemmeno i due servi furono uccisi dal principe di Sansevero: morirono lei di parto e lui per un tumore al piede. Le loro spoglie furono poi affidate al dottor Salerno che procedette con la tecnica della metallizzazione.
Infine, dopo l’iniziazione massonica in Napoli del 1770, Luigi Marchesi detto Feliciano continuò la sua carriera artistica e non, divenendo dopo la morte di Raimondo de Nangro nel 1771 Gran Dignitario massone della Gran Loggia Concordia di Milano nel 1799; anch’egli mori di morte naturale, nel 1809.
(Foto: web)

Michele Di Iorio