Pilone, il sergente borbonico Antonio Cozzolino: la vera storia – IV Parte


Pilone riusciva sempre a fuggire perché lo aiutavano in tanti: intorno a lui s’era creata quell’aura romantica dell’eroe che combatte per il bene e per una giusta causa, ruba per necessità a chi ha, ma senza avidità, anzi, distribuendo il superfluo a chi ne ha bisogno, e non uccide nessuno se non negli scontri a fuoco.
Proprio per questo venne demonizzato: faceva paura la sua intelligenza, il suo carisma, la sua purezza.
Una volta si rifugiò per una notte nell’hotel Diomede di Pompei, ma temendo l’arrivo della polizia fuggì a cavallo nelle campagne di Nola e si congiunse con le bande di “briganti” borbonici Passariello e Capuano.
Sebbene circondati dalla truppa italiana, su consiglio di Pilone tentarono un assalto a un treno prima che entrasse nella stazione di Sarno, ma le due bande, fatalmente accerchiate, dopo un inseguimento nelle campagne di Nola e dopo un vivo conflitto a fuoco vennero catturate entrambe le bande; nello scontro persero la vita un uomo di Passariello e un carabiniere, e due bersaglieri rimasero feriti.
Era il 26 febbraio 1866: Pilone riuscì a fuggire a cavallo ancora una volta, raggiungendo l’abitato di Santa Maria a Vico e da li di notte si spostò a Caserta.
Venuto a conoscenza che da tempo era stata catturata anche la banda dei fratelli La Gala di Caserta, continuò a cavalcare fuggendo attraverso le montagne a lui note, scese oltre il Volturno e arrivò fino al Garigliano, dove si congiunse con bande amiche di borbonici ai confini dello Stato pontificio.
Dopo qualche scontro con le truppe italiane, evitando i soldati francesi di guardia al confine, si presentò alla Compagnia dei Cacciatori pontifici di stanza a Frosinone, chiedendo di poter proseguire per Roma per incontrare con il comitato borbonico e presentare i suoi omaggi a re Francesco.
I papalini avevano avuto disposizioni precise sin dal 1864, quando vi fu una violenta scaramuccia con i briganti borbonici locali in cui rimasse ucciso il loro capitano, e arrestarono Pilone e un altro capobanda.
Nel marzo 1866 e lo tradussero nel carcere di Castel Sant’Angelo di Roma in attesa di processo.
Intanto, il governo italiano faceva pressioni su quello francese, che si ergeva a difensore del papato, per ottenere l’estradizione dei “briganti” borbonici prigionieri.
Invece i due capibanda vennero fatti liberare – ovvero evadere ufficialmente – su ordine  del cardinale Antonelli, ministro di Stato pontificio, e del governatore de Merode, prevalendo le pressioni del comitato borbonico di Roma presieduto dai conti e principi reali borbonici come i fratelli del re, il conte di Trapani, il conte di Trani.
Vennero dunque ricoverati nelle stalle di Palazzo Farnese, residenza ufficiale della corte borbonica in esilio: finalmente Pilone realizzò il suo desiderio di incontrare e salutare  re Francesco.
Nel 1867 venne poi ospitato al Castello di Caprarola, residenza di caccia dei Borbone nel Lazio, rimanendo in contatto sia con il comitato borbonico che con molti reduci militari di Roma, di Velletri, di Terracina.
Nel 1868 da solo prese il treno: in abiti borghesi nuovi, barba e baffi tagliati, scese alla stazione ferroviaria di Napoli per incontrare i membri del comitato borbonico napoletano al Bosco di Portici e poi al Circolo del Wist di Napoli, noto ritrovo di borbonici nostalgici, tra cui il barone Carbonelli, proprio il 6 febbraio, quando trenta giovani assalirono il circolo rompendone i vetri.
Fecero molti danni, ferendo anche i clienti, tanto che dovette intervenire la polizia al comando del capitano dei carabinieri Diotallevi e molte guardie nazionali, ma Pilone non venne riconosciuto e potette uscire tranquillamente dal locale. Evitò naturalmente di andare al Caffè Nocera pure danneggiato dagli stessi giovani scalmanati liberali e passò la notte in casa di borghesi filoborbonici del quartiere di Santa Lucia; il giorno successivo andò in treno ad Ottaviano senza incappare in nessun controllo di polizia.
Venne a conoscenza che i suoi uomini arrestati tra 1862 e 1866 dagli italiani erano stati processati dal tribunale di Napoli il 3 dicembre 1866 con le seguenti condanne:  l’anziano custode di Villa delle Ginestre, sua moglie e un’altra persona condannatia 10 anni di reclusione; quindici messi in libertà per i 4 anni già scontati in carcere preventivo; altri, compresi il fratello e lo zio, a 6 e a 15 anni di carcere con lavori forzati; le due guardie di polizia infiltrate nella banda, ugualmente arrestati, erano stati scarcerati a fine 1862; gli altri30 dichiarati renitenti erano stati trasferiti al carcere di Nisida dove erano morti dopo un anno annegati quando il mare inondò il bagno penale.
Erano dunque stati arrestati o morti tutti i suoi amici; cercò perciò di raccogliere una nuova leva di nostalgici borbonici in Campania tra i tanti scontenti del nuovo governo italiano, in particolare nei comuni vesuviani;  il comitato borbonico lo indirizzò al tenente borbonico Ulisse Gambella di Napoli, ma poi seppe che il militare era stato arrestato il 6 ottobre, mentre di pomeriggio andava in omnibus verso la Villa Comunale, scappando dopo aver tentato di sparare con una pistola Pateras, direttore del giornale napoletano Italia, la cui linea editoriale era nettamente contro briganti e nostalgici borbonici sin dall’inizio dell’unità.
Pilone allora si ritirò nelle terre vesuviane, dove pur solo poteva contare ancora su simpatie, soprattutto di donne sue ammiratrici, tra Pompei e Boscoreale.
Da un rapporto risulta che il 9 settembre 1869 la polizia di Napoli fu avvisata dall’informatore di polizia Celestino Acampora di Boscotrecase, che Antonio Cozzolino, proveniente da Roma dove era stato ospite del comitato borbonico, era ritornato una settimana prima, da solo, nelle campagne di Boscotrecase e di Boscoreale, apparentemente disarmato e tranquillo, ben vestito, senza farsi notare attaccando briga con i liberali locali, a tentare di far una nuova leva per la causa borbonica, e proprio quel giorno si era spinto in treno fino ad Ottaviano.
IL 13 maggio 1870, mentre Pilone dormiva nella vecchia casa paterna, venne circondato dai carabinieri al comando di un vicebrigadiere, ma fu avvertito da qualcuno; svegliatosi  ferì a morte il vicebrigadiere e fuggì in treno fino a Torre del Greco. La polizia nella stessa giornata effettuò arresti a Torre e a Resina di persone ritenute sue simpatizzanti da anni.
Pilone no, non riuscirono a catturarlo: era così popolare che godeva dell’appoggio di pastori, montanari, contadini, popolani dei comuni vesuviani; amato benefattore dei poveri, era amico di borghesi, nobili filoborbonici e del clero cattolico dell’area vesuviana che lo nascose spesso in chiese e conventi, come si sosteneva nei rapporti ufficiali della polizia italiana.
Qualcuno riferì ai gendarmi che Pilone agiva nelle campagne di Ottaviano con una piccola banda e ricominciava ad assaltare convogli ferroviari e carrozze.
Il 12 ottobre 1870 il suo luogotenente si costituì al cavaliere Bifulco, sindaco di Ottaviano, il quale nottetempo mandò la guardia nazionale a fare irruzione a Castello Medici dove si sospettava che il Pilone si nascondesse, ma non lo si trovò
Infatti Antonio Cozzolino, l’ultimo “brigante” del Sud, il guerrigliero borbonico imprendibile che resisteva da 10 anni, era andato a Napoli dal comitato borbonico che ancora sopravviveva in cerca di appoggi e denaro per armare nuovi uomini.
Una spia informò la questura; nella notte del 14 ottobre 1870 venne pedinato da piazza Cavour, poi lungo via Foria e quando arrivò all’Orto botanico, al posto dei due emissari del comitato borbonico Pilone trovò gli agenti in borghese della polizia pronti a catturarlo.
Erano l’appuntato Generoso Zicchelli e la guardia Benevento; Pilone tirò fuori un coltello e cercò di colpire l’appuntato che reagì ferendolo gravemente con una pugnalata.
Una ferita proprio sotto il cuore; Pilone tentava con la mano sinistra di comprimersi il profondo taglio per arrestare l’emorragia, mentre con la destra tentava di accoltellare la guardia Benevento, che intanto cercava di ammanettarlo.
I due poliziotti riuscirono infine a sopraffare il gigante ferito e lo trascinano in carrozzella alla questura.
Gli trovarono addosso carte e solo 40 lire, e nessuna arma da fuoco.
Antonio Cozzolino detto Pilone morì in cella alle 4 del mattino.
Il 22 ottobre 1870 a Napoli si “fecero” i numeri da giocare al lotto per la morte del “brigante” più amato della Resistenza borbonica: uscirono tutti sulla Ruota di Napoli, con una vincita globale di 3 milioni di lire, come raccontano i giornali di quel giorno e del 27 ottobre 1870.
72 – 20 – 23 – 70 – 8

Michele Di Iorio

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