Da qualche anno in vari campi dell’arte, dal cinema, al teatro, dalla poesia alla fotografia, dalla pittura alla scenografia, dalla musica alla architettura, per esprimere il linguaggio in voga si usa il termine “Minimalismo”.
Il concetto di minimalismo è anche affascinante e, per certi versi riprende quella idea di sottrazione di peso alle cose, per esprimerle con quella certa leggerezza di calviniana memoria. Bisogna fare un salto indietro di almeno 45 anni per incominciare a vedere la comparsa nel campo della critica e dell’arte di questo termine.
Il termine fu coniato nel 1965 dal filosofo dell’arte inglese Richard Wollheim nell’articolo intitolato, appunto, Minimal Art, all’interno della rivista Arts Magazine.
In quell’articolo parla di “riduzione minimale”, ma nel senso del contenuto artistico, relativamente a lavori dove entrano in gioco oggetti al limite indistinguibili dalla realtà quotidiana, oppure forme ed immagini con valenze anonime e impersonali, citando da un lato i ready made di Duchamp – che sono un punto di riferimento fondamentale per quello che riguarda la componente concettuale di ogni operazione riduzionista – e dall’altro Reinhardt, dal quale trae l’aspetto relativo alla riduzione purista della pittura e la sua concezione dell’arte per l’arte, tesa all’eliminazione di tutto ciò che viene percepito come essenziale.
Una sottrazione di peso alle cose da rappresentare.
Un’operazione affascinante e per certi versi anche una sentita necessità in tutti i campi dell’espressione creativa, e non solo.
Effettivamente col tempo tale riduzione degli elementi formali ha portato ad un alleggerimento della forma, ma allo stesso tempo anche ad uno svuotamento di contenuti, fino ad assistere a rappresentazioni formali vuote sia di forma che di sostanza.
Fin da ragazzo, pur odiando la riduzione minima della forma (il minimalismo) in particolare con il linguaggio fotografico prima e poi dopo con quello dei versi (poesia) ho anche cercato di comprenderlo, di viverlo, osservando le ultime proposte in quegli specifici campi e producendone mie.
Mi sono accorto che, in particolare negli ultimi anni, con l’avvento del digitale e della comunicazione globale – internet e con i social network – alla ricerca di una forma minima, sto osservando che corrisponde un pensiero sempre più minimo, tante volte una forma completamente svuotata di ogni pensiero.
Io non ci sto!
Io continuo ad odiare il minimalismo.
Lo vedo come uno strumento pericoloso, una moda che svuotando la forma progressivamente, velocemente e, sembra, inesorabilmente, stia svuotando anche i contenuti, facendo perdere all’arte quella grande forza e quel grande dovere, morale e politico, di smuovere le coscienze della gente.
Favorisce chi ha tutti gli interessi a far vivere la gente in una dimensione asettica, vuota, dove pensare e porsi delle domande , criticare, vedere la realtà che ci circonda da punti di vista sempre diversi e quindi comprenderne la complessità, diventa un lusso e per pochi eletti.
Io non ci sto!
Voglio anche costringere e ridurre gli elementi formali di una immagine, ma il mio pensiero deve poter spaziare in più dimensioni. E le forme prodotte, siano esse immagini fotografiche o versi di una poesia, devono raccontare la complessità della realtà, pur realizzate sottraendone peso.
Ma forse mi sbaglio, perché nel mio sangue napoletano ci sono particelle di atavico Barocco che difficilmente possono essere eliminate. Forse.
Mario Scippa