In uno sperduto borgo della Pennsylvania, nel Giorno del Ringraziamento, scompaiono la figlia di sei anni di Keller, Anna, e la sua amichetta Joy. Al contrario di ciò che dice la Polizia, che l’ha rilasciato, Keller crede che il sospettato principale sappia più di quel che dice.
Il film (USA, 13) è ambientato in uno di quei borghi sospesi senza cuore , tra sprofondo urbano e periferia campagnola, che sono la maggioranza e formano l’ossatura e il sostrato culturale e sociale degli USA. Mentalità che poi informa di sé l’intero corpo sociale, compreso quello delle grandi città.
Il protagonista è un onesto lavoratore: ‘nu faticatore, diremmo. Il rapimento lo trasforma in un implacabile e anche crudele persecutore. Ma non è il solito revenge film, cioè quel genere di film dove il castigamatti di turno si fa giustizia da sé.
È un qualcosa di più sfumato. Perché il padre, interpretato da Hugh Jackman, nonostante tutto, non perde completamente il lume della ragione e la sceneggiatura lo pone sempre ad un passo dal compiere l’irreparabile. Anzi, arriva a intuire giustamente come stanno le cose.
Il confrontarsi con l’altro genitore, il nero Terrence Howard, più riflessivo e meno portato all’intervento diretto, dà più motivazioni alle suo agire: lo pongono in una sfera non del tutto fuori registro. Ma sono dubbi che l’attore “risolve” con ruvida sicurezza proletaria esteriore: essi sono lasciati agire sottotraccia, non vengono semplicemente negati.
Il buon lavoro dello sceneggiatore, il giovane Aaron Guzikowski, e del regista di origine franco-canadese Denis Villeneuve, consiste nell’aver tratteggiato tale complessità all’interno di un impeccabile plot poliziesco che funziona e che fino all’ultimo ci lascia in sospeso: soprattutto nel sottofinale …
Anche perché il detective, l’attore Jake Gyllenhaall, comprende appieno la situazione del padre, pur senza giustificarlo. Anche la sua figura è portatrice di una dimensione umana molto avvertita. Si pone come un come un onesto e instancabile sbirro, pur coi suoi dubbi e carenze, che non può procedere se non bloccando il padre.
Il loro avvicinarsi alla verità è in parallelo: e ugualmente in questo il film procede in modo coinvolgente, usando anche stilemi ispirati a “Seven”, e mai lasciando cadere la tensione. In questo i due montatori, Joel Cox e Gary Roach, hanno ottimamente collaborato con la regia: le pause e le velocizzazioni, efficaci senza essere banali, sono sempre solidamente immesse in un quadro narrativo che pertiene alla scansione degli approfondimenti sui personaggi e sulle loro motivazioni. Non sulle situazioni in sé: e per questa via si arriva al disvelamento finale.
Un discorso a parte è da farsi sull’atmosfera visuale del film. Cupa, calata in un inverno quasi dell’anima: in cui dall’esterno tutto sembra pulito e ordinato; ma è pervaso da un’intima, “lenta” e nascosta follia che deve solo avere la minima scintilla per manifestarsi.
Il direttore della foto è uno grande: Roger Deakins. Un veterano del cinema USA che ha collaborato coi suoi grandi autori. Il suo cromatismo illumina con stile e sicurezza le scelte dei due scenografi PatriceVermette e Paul D. Kelly: l’atmosfera urbana che ne risulta, pur “girando” spesso su spazi aperti, dà un senso claustrofobico di oppressione e di pena.
Francesco “Ciccio” Capozzi