Il passato

Il passatoL’iraniano Ahmad torna a Parigi per sancire il suo definitivo divorzio con Louise. Viene coinvolto nei conflitti della figlia della sua ex moglie con lei e il suo nuovo compagno. È questo un impeccabile film d’autore (FRA-ITA,’13).
Il regista-sceneggiatore è il celebrato Ansghar Fahradi, già premio Oscar per il miglior film straniero con “Una separazione” (2012) e anche vincitore del nostro David di Donatello per la stessa categoria.
Le dialettiche del film sono tutte serrate all’interno dell’universo domestico. Ogni personaggio si apre come una corolla di fiore al sole a narrarci il suo punto di vista, alla Mike Leigh, la sua interpretazione degli eventi che si sono susseguiti nel passato immediato; nonché a produrne di nuovi.
Ma non c’è una visione ipersoggettiva e relativista degli eventi: alla Pirandello o alla Woody Allen, per intenderci. Al contrario il regista cerca la sincera verità di ognuno, il contenuto emotivo che più e meglio lo caratterizza. Egli ascolta i suoi personaggi, è loro vicino: cerca di comprendere le ragioni profonde dei loro talvolta ambigui comportamenti. Non è portatore di asserzioni definitive. Si rende invece conto che le ragioni profonde risiedono in una zona anche agli stessi personaggi sconosciuta.
Non assistiamo alla vittoria di un pensiero univoco: ma alla presenza di diverse e in parte contrastanti declinazioni di amore e di emotività. Tuttavia non c’è confusione. Perché ogni personaggio, nel convivere con questa gamma di sentimenti, si sforza di arrivare al punto di “contenere” anche l’altro, di farlo abitare dentro il proprio universo affettivo.
È una ricerca che tiene profondamente conto della misteriosa  variabilità dell’esistenza: in questa chiave il finale – che non vi dico … – sembra, quasi beffardamente, riaprire tutti i giochi.
Ma è una ricerca che il regista conduce con un serrato lavoro di investigazione all’interno dei cuori dei suoi personaggi. Che, come le onde del mare, in questa incerta certezza dei sentimenti, può essere in grado di trovare ancora altre soluzioni: è questa la sfida che si riapre con la vita alla fine del film e non c’è nulla di definitivo, tipo il finale gratificante hollywoodiano.
Tuttavia il centro della narrazione è la donna, interpretata da Bérénice Bejo, che, a buona ragione ha vinto come miglior attrice protagonista a Cannes ‘13.
È la sua presenza la spinta agli avvenimenti. Da una parte tutto fa perno sulla sua forte personalità, che vuole affermare il suo diritto all’esistenza appagata dall’amore e non solo dalle responsabilità di madre; dall’altra, subisce gli stessi meccanismi che ha messo in moto.
«Racconto vite in viaggio alle fonti del dolore», ha dichiarato il regista, volendo mettere in evidenza i percorsi individuali e collettivi chiusi all’interno di un universo domesticoapparentemente limitato: che invece si apre con efficace semplicità “necessaria”  – ma sono accurate scelte di sceneggiatura – sul mondo e su altre esistenze.
Il film mi ha coinvolto perché le serrate indagini avevano sempre di fronte emotività reali e sincere, accompagnate da un senso dell’inquadratura e della fluidità di  montaggio di grande tecnica della francese, conosciuta anche in USA, Juliette Welfling, che accompagna il dipanarsi delle vicende con accorta precisione di tempi e pause.
D’altronde la fotografia è di un artista molto apprezzato in Iran e all’estero, Mahmoud Kalari: ha saputo dare vita a quell’universo limitato della casa, cogliendone le atmosfere cromatiche in modi interpretativi diversi.
L’universo domestico è stato inventato dallo scenografo Claude Lenoir, che ha collaborato nientedimeno che con K. Kieslowski: uno spazio limitato e pur dispersivo, che contemporaneamente è in grado di allontanare e avvicinare tutti le dramatis personae del film.

Francesco “Ciccio” Capozzi