In un’imprecisata zona della Brianza s’intrecciano storie e punti di vista di due famiglie, una ricca e l’altra di un traffichino, che si riferiscono ad un misterioso incidente stradale.
Paolo Virzì, regista e sceneggiatore del film (ITA-FRA, ‘13), insieme a Francesco Piccolo e Francesco Bruni, due eccellenti scrittori del nostro cinema, dopo “Caterina va in città” (‘03), ci ha dato finalmente un altro capolavoro.
La cosa singolare è che il soggetto è un romanzo di Stephen Amidon, di pretta ambientazione yankee: ma lo stesso scrittore è rimasto “emozionato” dalla capacità che hanno avuto regista e sceneggiatori, di “stravolgerlo” e di ”tradurlo” in perfetto e comprensibilissimo “padano”, pur restando ad esso profondamente fedeli.
Segno evidente della totale e stringente contemporaneità della vicenda, che lo scrittore Usa aveva attribuito all’epoca di Bush ‘o piccirillo.
Il film assume diversi protagonismi che narrano la stessa vicenda, saldandosi in snodi comuni, che danno una fluida contiguità logico-narrativa, che poi confluiscono nell’unico finale, ognuno dei quali mette in evidenza non solo la stessa interpretazione degli eventi, ma la propria carica comportamentale e caratteriale con cui li affronta e ne è mutato.
Sono personaggi già “carichi”, cioè ben identificati da loro vicissitudini che vengono via via chiarite con leggeri tocchi di dialoghi e sottolineature di comportamenti ben assortite sparse per l’intero film: il regista e il suo team hanno “furbamente” utilizzato la loro precedente compatta struttura letteraria, per dare maggior corpo e sostanza drammaturgica all’assetto della vicenda. Sono stati molto abili nell’utilizzare al meglio il lavoro letterario, senza lasciarsene né dominare, né fuorviare.
In questo il lavoro di sceneggiatura è da manuale per finezza di cesello, chiarezza e concisione. Ma anche quello degli attori: il loro portarsi, perfino nelle piccole cose e sfumature di posture corporee, fin dall’inizio era molto concentrato e in grado di suggerire la loro essenza. Ma tutto con un equilibrio ferreo.
E c’è inoltre un’armonia descrittiva col territorio – in “quel” posto, “quella” precisa gente con “quelle” facce -, per cui la location, per quanto genericamente identificabile, diventa una specie di “non-luogo”. Ovvero è una qualunque parte del mondo che obbedisce, in maniera più totalizzante, più ideologica, più spinta alle identiche leggi di rapina del “Finanzcapitalismo” (L. Gallino), e dei suoi sussulti di desertificazione sociale, ai quali assistiamo oggi, quasi impotenti; e su cui il film c’invita a riflettere.
Tuttavia l’elemento culturale-ideale, per così dire, del film , non è la semplificazione, ma la complessità.
E il personaggio più orrido è proprio quello di Fabrizio Bentivoglio, bravissimo, che rappresenta il rampantismo di provincia profonda, che non esita a ricattare, a essere cinico sotto una copertura di melliflua impotenza sociale: perfino il finanziere-pescecane che punta i soldi sulla crisi, è meno insopportabile.
La storia è corale e incastra i personaggi in modi inappuntabili.
La fotografia, del francese Jéròme Alméras, è molto curata, satura i colori lividi con corposa potenza; dà forza, stile unitario, grazie alla compattezza visuale, all’intera narrazione.
Francesco “Ciccio” Capozzi