Napoli è una città che possiede una sinuosa bellezza. Giace dove il Vesuvio si distende, l’accarezza e la brama col suo sguardo di fuoco. Una città dove l’amore etereo è sconosciuto, perché nasce dalla carne e dalla passione.
Strega e avvinghia nelle sue visceri con ardore, come fuoco di lava, divampando e avviluppando a sé la persona amata.
La passione a Napoli ha occhi di brace. È assoluta, tenace e distruttiva.
È la notte del 4 gennaio 1424. I corpi privi di vita dei due amanti sono stati gettati nel gelido fango, presso le mura di San Giovanni a Carbonara. I figli di Pietro di Capua hanno reso giustizia al padre, per l’adulterio consumato sotto i loro occhi. Hanno ucciso la loro matrigna Caterina Capece e il suo amante Alvise Dandolo.
La sera precedente la donna era in attesa dell’amante, approfittando dell’assenza del coniuge. Tuttavia, nella fredda giornata d’inverno, è avvenuto che i figliastri si siano fermati nella casa paterna, catturati dall’invitante focolare. Hanno letto insieme alla matrigna il libro di Tristano, Lancillotto e Galaad e della regina Isotta.
Nel mentre, la fantesca, complice della tresca amorosa, ha fatto cenno alla padrona dell’arrivo di Alvise. La giovane le ha fatto segno di condurlo nella sua camera da letto, mantenendo coi figliastri il consueto contegno. Inoltre, con la scusa di leggere con maggiore attenzione i caratteri del libro, ha coperto in un abbraccio le nuche dei ragazzi, consentendo così al mercante di raggiungere il talamo. Poi, adducendo un forte mal di capo, Caterina si è ritirata nelle sue stanze per accogliere l’amato.
Il caso ha però voluto che uno dei fratelli di Capua abbia scorto una figura d’uomo che passava e lo ha palesato agli altri che, comprendendo si trattasse di un amante, hanno deciso di radunare tutti i familiari.
Si sono recati armati davanti la stanza da letto della giovane chiedendole di aprire la porta, ma Caterina si è rifiutata. Mentre i figliastri abbattevano la porta con una scure, Alvise Dandolo si è vestito munendosi di spada, deciso ad affrontarli. Tuttavia, la donna lo ha esortato a scappare, certa di accomodare poi ogni cosa.
Intanto, la porta è caduta con uno schianto e gli amanti si sono trovati le armi puntate contro. Caterina con fierezza si è posta davanti ad Alvise per sfidare da sola i ragazzi. Il mercante veneziano ha tentato invano di corromperli offrendo loro denaro: i fratelli l’hanno accusato di vigliaccheria nel farsi scudo del corpo di una donna. Hanno dunque trafitto brutalmente la matrigna nel ventre, ammazzando anche Alvise durante il combattimento.
Caterina, detta Tirina o Tirinella, fu figlia del nobile Marino Capece, ammiraglio del Regno di Napoli, persona di spicco nel sedile di Porta Capuana.
Tirinella andò in sposa al nobile Pietro di Capua che godette di grande onore presso la corte angioina e rappresentò anch’egli il rilevante sedile di Capuana.
Pietro, ultracinquantenne, rimasto vedovo con quattro figli già adulti, sposò Tirina. Quindicenne e bellissima, fu una donna colta che amava scrivere poesie in volgare. La loro dimora fu un sontuoso palazzo che sorgeva a Porta Capuana.
Correva l’anno del Signore 1421; un giorno la giovane partecipò alla messa presso la magnificente chiesa di San Giovanni a Carbonara, con la sua fantesca Maria.
All’amore non serve il tempo, occorre un solo attimo: lei per caso incrociò lo sguardo di un bellissimo giovane biondo dagli occhi di cielo: era Alvise Dandolo, un nobile veneziano commerciante di tessuti, che voleva estendere gli affari paterni anche a Napoli.
L’amore suggellò per sempre i loro sguardi. Spesso s’incontrarono durante le celebrazioni religiose e i loro animi s’infiammarono, nutrendosi sempre più di passione.
Un giorno la fantesca Maria lasciò al giovane nobile un biglietto in cui si raccomandò che l’amore che lo legava a Tirina doveva restare occultassimo, guadagnando il silenzio anche col denaro, se necessario.
Alla prima occasione, quando Pietro di Capua si allontanò dalla città per i suoi affari, gli innamorati colsero il momento per incontrarsi …
«Spesse volte, con sommo loro diletto, si congiungevano, anche quando il marito non era fuori di Napoli, come accade quando una relazione è avviata; e si ritrovavano di notte e di giorno per soddisfare il loro ardore. Quid legem rabito iuvat impossuisse furori? Omnibus imposita lex quoque maior, Amor», scrisse Giovanni Aurispa, umanista e cronista dell’epoca.
La loro relazione durò tre anni. Affrontò pericoli, difficoltà che invece di spegnerla la nutrirono col sapore occulto della clandestinità. Il marito era troppo preso dalle sue cariche per capire quanto stava accadendo.
Di Tirinella sono rimaste solo alcune sue poesie manoscritte custodite nel Grande Archivio di Napoli:
«Come il mare il mio pensiero ondeggia
e il mio cuore mi fa presto piegare …
O sonno vesuviano, o notte di ghiaccio stellata
il mio seno brucia lontano dall’emozione ingannevole e folle …»
Tiziana Muselli