Tre fratelli calabresi: due sono dediti al traffico di droga a Milano, il terzo è rimasto in Calabria a cercare di recuperare una vita normale al di fuori di faide e appartenenze a clan. Ma il figlio di quest’ultimo rompe un fragile equilibrio.
Il film (ITA-FRA,’14), tratto dal romanzo omonimo di Gioacchino Criaco, è un notevole esempio di come si possa rendere lo spirito di un libro, traducendolo in un altro linguaggio, quello delle immagini.
Il lavoro che hanno fatto Maurizio Braucci, autore del testo di partenza, regista e anche sceneggiatore insieme con Fabrizio Ruggirello è stato davvero di profondità: hanno reso la materia essenziale, bruciante nella sua unicità. Hanno applicato creativamente gli stilemi del cinema di realtà usato in quell
o di fiction: Braucci ha lavorato per “Gomorra”, “L’intervallo”, “Tatanka” ecc. Per cui, facendo prevalere la documentazione ambientativa di tipo realistico-naturale, rigorosamente funzionale alle atmosfere evocate, hanno inscritto in essa cose, fatti, persone.
Ma anche tradizioni ancestrali, residui del passato che non solo sopravvivono, ma determinano il presente. Come il concetto di faida, di onore e di appartenenza al clan familiari e alla presa in carico passiva di vendette e scie di sangue.
Il film però, “rompe” con gli schemi prevedibili, e dà una sterzata narrativa molto forte e consapevole: nel finale, il fratello rimasto ad Africo, che si è visto morire il figlio che, a differenza di lui, aveva accettato l’appartenenza alla continuità, compie il gesto imprevisto, l’unico possibile, che interrompe la serie.
Da una parte la consapevole rottura con tutto il codice, ribaltandone assolutamente le sue stesse ragioni fondanti; dall’altra la lucida, cupa, assoluta consapevolezza che quello della morte è l’unica forma di narrazione che quel linguaggio anima.
Il film ciò ci annuncia con una forza di stile compatta, attenta e perfino raffinata nelle motivazioni psicologiche suggerite. Il loro parlare in dialetto stretto imprime una forte cadenza espressionistica: ascoltare i suoni, in quel contesto di sfasciume, ma in cui s’indossano rolex e parures di diamanti, ci immerge in un’atmosfera attanagliante, che non dà tregua narrativamente.
C’è molta tragedia greca, ma senza retorica: la concentrazione su di sé del padre e delle difficoltà del ruolo che si è dato, è estrema.
Nella gestione degli equilibri con i vecchi ma ancora potenti ’ndranghetisti del paese e che cerca di mantenere, si consuma una vita apparentemente mediocre, oggetto di incomprensione e di derisione: ma la sua è l’acuta consapevolezza che solo superando le vecchie storie, addirittura con i suoi strascichi di ingiustizie non risarcite, ci può essere un futuro. Che però lo stesso è negato dal comportamento del figlio esemplato sui suoi zii mitizzati.
È un film potente. Non ha niente di retorico. Oltre agli sceneggiatori hanno fatto un lavoro in sé esemplare, ma molto ben connesso alle indicazioni del regista, il direttore della foto Vladan Radovic, che, nato a Sarajevo, diplomato al CSC di Roma, lavora da tempo nel nostro cinema, specie in quello caratterizzato da sfide sperimentali; e lo scenografo Luca Servino, che usa la naturalità in chiave documentaria, ma drammatica.
Il montaggio di Cristiano Travaglioli merita una menzione particolare: dà quel senso di asciuttezza dinamica che cattura e accompagna e sottolinea il crescere della drammaticità.
Francesco “Ciccio” Capozzi