La storia umana è sempre legata a un filo: per ben quattro volte Giuseppe Garibaldi sfuggì alla morte per mano dei soldati d’assalto borbonici, i Cacciatori, i migliori soldati di linea del Regno delle Due Sicilie. La stessa unità d’Italia fu appesa a un filo: sarebbe bastato un colpo di fucile o di baionetta, una sciabolata …
Nella mattinata del 19 maggio 1849 a Velletri un battaglione Cacciatori a piedi di linea, un battaglione di fanteria di linea e mezzo squadrone di cacciatori a cavallo, al comando del capitano Filippo Pisacane, fratello del tristemente noto Carlo, svolgevano la manovra esplorativa contro gli uomini armati della repubblica romana, al comando del ligure Giuseppe Garibaldi.
Vi fu un vivace scambio di fucileria e Angelo Masina al comando di quaranta lancieri repubblicani passò al contrattacco con una carica. Il maggiore Colonna dei cavalleggeri regi fu travolto dagli avversari ma si riprese e respinse i nemici.
Vedendo la ritirata dei suoi lancieri, Garibaldi, scortato dal fedele uruguayano Andrea Aguyar, sciabola in pugno, sempre generoso in battaglia, superò il raggio d’azione impostogli dal comandante in capo repubblicano Rosselli e si pose di traverso sulla strada per frenare la ritirata dei suoi lancieri ma venne travolto dagli stessi suoi uomini e poi dai cavalleggeri duosiciliani. Tra il groviglio di uomini e cavalli caduti, il maggiore borbonico Colonna tentò di colpire con la sciabola Garibaldi ma il suo cavallo fu ferito dalla fucileria del battaglione repubblicano Speranza, formato da giovanissimi volontari dai 12 ai 15 anni, che investi la cavalleria napoletana.
La carica dei bersaglieri di Manara consentì a Garibaldi, leggermente ferito a una mano, di sganciarsi e riparare dietro le linee.
Il secondo episodio si verificò in Sicilia nel maggio del 1860, con l’VIII battaglione Cacciatori di linea a piedi comandato dal maggiore Michele Sforza, di stanza a Nocera, trasferito via mare in Sicilia per combattere i garibaldini.
Dopo un aspro scontro durato 8 ore, il 15 maggio a Calatafimi ci provò un soldato semplice a sparare su Garibaldi, che venne provvidenzialmente coperto da un volontario, Antonio D’Elia, di Ancona, che si prese in pieno viso la pallottola destinata al generale.
Garibaldi diede dunque ordine di proteggere la bandiera italiana ma otto Cacciatori, comandati dal sergente Ciro La Rosa, un fedelissimo luciano, caricarono il portabandiera sperando di uccidere non solo Garibaldi ma nello stesso tempo catturare il vessillo avversario. Il gonfaloniere venne ucciso e la bandiera, strappata da due soldati borbonici, venne recuperata da Menotti, figlio del generale, sebbene il giovane rimanesse ferito alla mano destra.
Menotti lasciò cadere revolver e vessillo, che venne nuovamente recuperato dal sottotenente garibaldino Bandi, che però venne ferito anch’egli da una terza fucilata. Il Cacciatore Carmine De Vita riprese il vessillo, lottando con il garibaldino Damiani, che venne trafitto dalle baionette agli ordini del sergente La Rosa.
Durante i concitatissimi momenti quest’ultimo scagliò una pietra contro Garibaldi e lo ferì leggermente sulla fronte. La bandiera rimase in mano borbonica, anche se la battaglia di Calatafimi si risolse con la sconfitta e la ritirata dei duosiciliani. La débâcle fu senz’altro causata dalle inspiegabili direttive del generale borbonico Francesco Landi, 77 anni, che ordinò ai suoi soldati di ritirarsi sebbene fossero vicini alla vittoria, benché contassero 36 caduti e 150 feriti contro i 32 morti e 182 feriti dei garibaldini.
Il tentativo dell’esercito del Regno delle Due Sicilie di fermare i garibaldini continuò anche dopo l’armistizio borbonico, anche questo inspiegabile, stipulato dal generale Lanza nonostante la valorosa difesa borbonica di Palermo. Un corpo di armata di 24mila borbonici si schierò tra Catania, Messina e Milazzo.
Da Messina partì un’avanguardia duosiciliana composta da 3000 soldati diretti a Milazzo al comando del generale Colonna di Stigliano e del colonnello La Rocca, di rinforzo alla guarnigione di Milazzo.
All’alba del 17 luglio 1860 iniziò la battaglia in località Archi con il III battaglione Cacciatori e una batteria di linea al comando del colonnello Ferdinando Beneventano Bosco, siciliano. Seguirono dunque scaramucce con forti perdite garibaldine.
Il 20 luglio arrivò sul posto Garibaldi. Quella mattina la battaglia divenne violentissima. Bosco ordinò allo squadrone cacciatori a cavallo di lanciarsi alla carica.
Individuato tra gli avversari Garibaldi, Bosco sotto il fuoco nemico si diresse di gran carriera verso il generale nemico. Arrivato a pochi metri, menò un fendente con la sciabola che Garibaldi parò a stento. Il suo cavallo cadde e rimase ucciso invece l’assalitore borbonico. Due Cacciatori a cavallo cercarono anch’essi di colpire o di prendere prigioniero Garibaldi caduto a terra, ma vennero sopraffatti dal tiro garibaldino di copertura.
Il 28 luglio la Sicilia venne evacuata dalle truppe borboniche, tranne le guarnigioni di Augusta, Messina e Siracusa.
Dal mese di agosto in poi i garibaldini occuparono facilmente le Calabrie e la Basilicata. Arrivarono a Salerno, per poi entrare tranquillamente a Napoli, mentre Francesco II e Maria Sofia ripararono a Gaeta e l’esercito borbonico si attestò sul Volturno.
I soldati duosiciliani combatterono valorosamente contro i garibaldini a Caiazzo il 22 settembre 1860 e poi tentarono il grande attacco del Volturno dell’1 ottobre.
Dopo due giorni di violentissimi combattimenti, accadde il quarto e ultimo episodio in cui Garibaldi ebbe fortunosamente salva la vita.
Il generale lasciò Santa Maria Capua Vetere attaccata dalla II divisione borbonica per organizzare il contrattacco a Sant’Angelo. Si trovava in carrozza con gli ufficiali dello stato maggiore dietro e con una seconda carrozza di scorta, alle 5 del mattino sul ponte Ciccarelli, quando dalle fogne che costeggiavano la strada consolare balzarono fuori i Cacciatori del X battaglione.
La vettura venne fatta segno di numerosi proiettili che uccisero uno dei cavalli, il cocchiere e il giornalista americano del Daily news. Garibaldi saltò prontamente a terra rifugiandosi dietro terrapieno della strada, coperto dal suo Stato Maggiore e dalle sue guide.
Un plotone di 25 Cacciatori del X battaglione al comando del suo alfiere D’Angelo si rifugiò nuovamente nelle fogne e un’ora dopo, 5 km più avanti, deciso ad uccidere Garibaldi lo attaccò ancora mentre era nella seconda carrozza, ma venne sopraffatto dagli uomini della scorta.
Michele Di Iorio