Ripercorrendo velocemente la storia oramai antica della nostra repubblica, nata nel 1946 dopo quasi novant’anni di regno della dinastia Savoia, rivediamo l’Italia governata per una trentina d’anni da un monocolore democristiano che all’inizio godeva di solidi principi costituzionali, garantisti di un futuro seppur non pienamente industriale di certo caratterizzato dalle forze artigianali e commerciali oltre che dallo sviluppo rurale, principali ed imprescindibili caratteristiche della popolazione Italiana del ‘900.
Inizialmente c’era moralità nella politica, poi i tempi incominciarono a cambiare, i soldi facili ed il potere, la corruzione, presero il sopravvento.
Per parlamentari e senatori il potere divenne qualcosa d’indispensabile.
I valori morali ed istituzionali relegati nell’anticamera del cervello e abrogati dai palazzi parlamentari. «Ognuno per sé e Dio per tutti» era il motto dei politici che ancor oggi impera e divide.
L’allora senatore Amintore Fanfani, decano della Democrazia Cristiana, fece parte del gruppo dei saggi che dettarono le basi della Costituzione. Sempre presente nella direzione esecutiva del paese, personaggio furbo, estroverso e innovatore a modo suo, assunse la carica di Presidente del Consiglio nel 1963 con un governo di centrosinistra. Il suo primo provvedimento fu l’aumento del prezzo della benzina. Il gasolio era poco conosciuto perché il motore diesel era comune solo a camion e a qualche trattore.
Fanfani pensò per primo allo sviluppo dell’industria, com’era giusto per un paese che stava crescendo. Propose ed emanò provvedimenti e leggi a favore degli industriali, relegando gli altri comparti produttivi a semplici contribuenti operosi ma non indispensabili.
Seguirono com’è noto altri governi sempre scudocrociati. Nel 1970 andò al governo l’onorevole Rumor, vicentino, il quale nell’intento di accelerare l’industrializzazione del paese aumentò esponenzialmente gli investimenti in infrastrutture, ed aiuti statali ad imprese ed enti. Il risultato fu un aumento del 5,1% del debito pubblico.
Iniziò così la scalata del debito pubblico e la complementare inflazione della moneta. Il potere d’acquisto fu allora indicizzato alle paghe dei lavoratori.
Nel 1980 l’allora ministro del tesoro Andreatta in accordo con l’allora governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi decise di dare battaglia alla scala mobile riducendone di fatto la forza economica dei salari operai. Continuò la politica deleteria della guerra alla scala mobile che vide la sua fine sotto i governi Craxi e Amato.
La colpa di ciò è da imputare ai sindacati degli operai che invece di sostenere i loro tesserati si vendettero alla politica e all’industria, con la scusa di inibire l’inflazione per mezzo della diminuzione dei costi del lavoro.
Nel contempo fu lasciato al sistema bancario il compito di schiavizzare i clienti con una politica del credito strozzina che portò l’inflazione ad accentuarsi sempre più.
Con una politica dissennata tutti i governi succedutisi hanno continuato l’opera demolitrice del paese con il continuo aumento del debito pubblico, e di conseguenza l’aumento dell’inflazione.
Politica ed industria d’accordo che con l’inflazione e con una moneta debole le ditte potevano esportare più facilmente, non pensavano che le materie prime importate sarebbero costate sempre più, e che le paghe degli operai stavano perdendo sempre più valore d’acquisto.
Politici, tecnici, industriali, banchieri, sembra non abbiano mai tenuto conto che la materia prima necessaria alla trasformazione arriva dall’estero, così come pure gran parte del fabbisogno energetico ed alimentare vengono acquistati in dollari.
La lira moneta continuamente inflazionata necessitava di un continuo aggiornamento nell’ aumento dei numeri sulla valuta stampata per poter far fronte all’inflazione.
Giorno dopo giorno i salari dei lavoratori subivano una perdita di potere d’acquisto. La lira di allora come l’euro nazionale oggi sono come un cane malato di testa che si rincorre la coda senza mai raggiungerla. Alla fine il cane muore di sfinimento, così come la nostra nazione.
Il credito concesso dai risparmiatori italiani per tanti anni al governo era alto, come la certezza della solvibilità del debitore, lo Stato Italiano. L’aggiunta di un interesse alto pagato sul prestito faceva gola, tutti gli italiani risparmiatori per natura, investivano sul debito pubblico. Innocentemente credevano a ciò che la politica faceva loro credere: che tutto funzionava, e non c’era alcun pericolo, garantisce lo stato.
Erano tempi illusoriamente felici. Tutti stavamo bene, il progresso camminava a passi da gigante, innovazioni tecniche, lavoro per tutti. La modernità galoppava, sembrava che non ci fossero più limiti: bastava avere soldi in tasca ed eri il padrone del mondo.
Nessuno degli emeriti presidenti del consiglio dei ministri, succedutisi continuamente alla guida del paese negli ultimi quarantaquattro anni, ha mai minimamente pensato o programmato l’inizio di un ripianamento del debito, o perlomeno una equa riduzione dell’esposizione debitoria dello stato in modo che potesse essere sopportabile.
Il valore della moneta corrente continuò a svalutarsi; le entrate non coprivano le uscite, perché nel frattempo le spese colpite dalla continua inflazione aumentavano nel numero, anche se in sostanza i beni acquistati erano identici agli anni antecedenti.
Le entrate provenienti dalle tasse erano conteggiate sui valori degli anni precedenti. Gli interessi passivi sul debito statale si aggiungevano alle uscite di cassa causando un vortice incontenibile.
A causa del debito pubblico in continua espansione l’inflazione si estese, il costo dei materiali aumentava vorticosamente, anche del 20% annuale.
Politici ed economisti, con una mastodontica miopia, non fecero alcun passo per frenarne l’ascesa, facevano comodo all’industria avere una moneta debole ed un costo del lavoro che scendeva. Aumentavano le esportazioni verso l’estero, c’era la possibilità per molti industriali e politici di creare fondi neri nei vari paesi compiacenti.
Fine prima parte
Gilberto Frigo