La festa della Santa Pasqua cristiana prende origini dalla festa degli azimi, focacce senza lievito che gli ebrei antichi chiamavano Pesach, che significa resurrezione. In greco termine divenne Paska e poi in latino Pascha.
Gli ebrei con la Pesach ricordano ancora oggi la liberazione dalla schiavitù, quando guidati da Mosè lasciarono precipitosamente l’Egitto, portando con sé i pani che non avevano avuto il tempo di lievitare.
In tempi originari immolavano un agnello a Dio che simboleggiava sottomissione e sacrificio nell’attesa del Messia liberatore. I primi cristiani identificarono l’agnello con Gesù risorto.
Nel 325 il primo Concilio di Nicea stabilì che la festività pasquale venisse celebrata tra il 24 marzo e il 9 aprile per celebrare data probabile della morte di Cristo avvenuta nel trentatreesimo anno dalla sua nascita. Preceduta dalla domenica delle Palme, la Pasqua di Resurrezione, avviene dopo il plenilunio di marzo, ed è quindi una festa mobile.
La Domenica delle Palme i papi donavano le palme ai sovrani cattolici, come fece Giovanni VIII a Carlo il Calvo e Celestino III a Filippo I di Francia e ai sovrani spagnoli e di Napoli, dove dall’anno 325 vi era già l’uso del cero pasquale e se ne ricordano gli esempi bellissimi del Gesù Nuovo e di San Domenico Maggiore.
Naturalmente Napoli così ricca di tradizioni non poteva che essere all’altezza nella celebrazione della Santa Pasqua. Le funzioni religiose iniziavano il Mercoledì Santo sin dal 1518, anno in cui a Roma nella Cappella Sistina con papa Leone X si celebravano i salmi in latino e il Miserere cantato con musica di Costanzo Fiesta o del Massai o di Giovanni da Palestrina. Quando Mozart lo ascoltò ne 1770 lo trascrisse rendendolo celebre. Il testo fu poi tradotto in dialetto napoletano nel 1787 da Nicola Valletta.
Il Giovedì Santo, detto giorno dei Sepolcri dal Rinascimento in poi, giorno della preparazione del Sepolcro di Gesù in tutte le chiese. In pieno 1500 descrisse quelli di Napoli Giovan Battista Del Tufo, raccontando dei quadri coperti, delle campane legate perché il vento non le facesse tintinnare, le pianticelle di grano fatte germinare al buio nelle case dei fedeli e portato in chiesa, il cuscino di velluto viola per il Cristo morto …
E poi il rito cui erano molto legati i Borbone della lavanda dei piedi di 12 vecchi e 12 monache di clausura, alla presenza della nobiltà di corte vestita a lutto con udienza nella sala del trono a Palazzo Reale, dopo le visite a diverse chiese aperte fino alle 23, sempre di numero dispari, da 3 a 7.
La giornata per i sovrani si concludeva con offerte ai poveri, mentre nobili e popolani prendevano parte allo struscio per via Toledo, sfoggiando abiti nuovi. Qualcuno magari approfittava dell’occasione con la speranza di accasarsi …
Carlo III nel 1775 in questo giorno donò un magnifico calice d’oro e pietre preziose a papa Pio VI Braschi, opera dell’orafo Francesco Schiavone.
Magnifici i Sepolcri approntati tra drappi in oro e broccato, mentre si cantavano le tre ore di agonia, uso importato ne1788 dal gesuita Alfonso Mexia da Lima.
I riti antichi delle processioni del Giovedì e del Venerdì Santo erano caratterizzati da ceri, lampade, crocifissi e soldati in veste di legionari romani Ancora oggi si svolgono più o meno così a Salerno e in provincia di Napoli.
A Napoli le truppe sfilavano in alta uniforme con i fucili a canna in basso, stendardi a mezz’asta. Nel 1850 Ferdinando II e la regina sfilavano in testa al corteo. Il re indossava la divisa colonnello del I Lancieri a cavallo, preceduto da soldati dei vari corpi e dallo Stato Maggiore, seguito dalle dame della regina in lutto stretto, le bande militari in silenzio.
Nel Giovedì Santo 1856 la parata del Giovedì Santo alla presenza di Ferdinando II si svolse imponente al Campo di Marte a Capodichino, attuale aeroporto, e cosi la parata del 1859 con Francesco II e Mafia Sofia al Duomo.
Gli ultimi sovrani di Napoli sempre sorridenti passeggiarono poi per le strade, riveriti dai sudditi. Seguirono poi la processione del Venerdì Santo detta allora degli Spagnuoli dal 1500.
Il Sabato Santo dopo lo “scioglimento” della Gloria vi era il canestro pieno di ogni ben di Dio, ‘o canisto offerto al re e all’arcivescovo dai commercianti. Casatiello, pasta, salumi, formaggio, vini e l’immancabile pastiera di grano.
Un ricco canestro ebbe anche Vittorio Emanuele II di Savoia nel 1861 e cosi nel 1889 la regina Margherita sposa di Umberto I.
L’usanza del canestro pasquale era infatti radicata nel commercio: anche i clienti – previa raccolta di 8 talloncini dati dai negozianti quando facevano la spesa negli 8 mesi precedenti – ricevevano un canisto.
Erano tante le usanze pasquali da ricordare che si svolgevano a Napoli: il Sabato Santo si officiava la tradizionale messa dei catecumeni con la processione al Vomero vecchio e all’Arenella.
In serata ancora una processione al Vomero dell’antica congrega di Santa Maria del Soccorso che si concludeva con musica in onore della Madonna e di Gesù, seguita poi da pizze, casatielli e il resto delle pietanze della ricca cucina napoletana.
Da non dimenticare l’uovo di cioccolato, tradizione diffusa a Napoli sin dal 1750 grazie a Di Iorio di Dentecane di Pietradefusi, nell’avellinese, maestro pasticciere abilissimo anche nel confezionare anche pantorrone e colombe, che fu fornitore delle case reali fino al 1945.
Nella Domenica di Resurrezione la Santa Pasqua veniva celebrata con la messe solenne e la visita ai cimiteri per i Santi defunti.
Vestiti a festa, i napoletani si scambiavano auguri con amici e parenti tra lo scampanio delle chiese di Napoli, concludendo la giornata con il pantagruelico pranzo pasquale.
Satolli, magari un po’ sonnacchiosi, si preparavano dunque alla scampagnata del Lunedì in Albis, La famosa Pasquetta …
Michele Di Iorio