Cina, 1967: nel pieno della Rivoluzione Culturale, due giovani vengono inviati nella Mongolia Interna (territorio cinese) per lavorare con i nomadi nella dura condizione della steppa. Uno dei due, salvando un cucciolo di lupo, lo alleva.
Il film (FRA-CINA, ’15), è il frutto di una strana operazione produttiva, voluta e proposta da alcuni produttori cinesi al regista francese Jean Jacques Annaud. E in Cina sta incassando a livelli stratosferici.
Da dire che questo riconosciuto professionista aveva avuto a che fare con le autorità cinesi per “Sette anni in Tibet” (97): e non erano stati rapporti idilliaci. Ma evidentemente, come ha più volte dichiarato, le cose sono cambiate: e il regista non ha avuto problemi con la censura.
E vorrei ben dire: infatti il film, cui ha collaborato alla sceneggiatura il cinese Lu Wei (oltre a Alain Godard e John Collee), non ha nulla che abbia potuto dare fastidio agli attuali dirigenti del PCC, che, in ultima istanza, decidono se dare il via a qualunque operazione produttiva.
Per esempio: il giudizio che si dà sulla “Grande Rivoluzione Culturale Proletaria” (questo era il nome ufficiale) che dal ‘66 al ‘68 perdurò per tutta la Cina, è assai interlocutorio. Essa sconvolse profondamente l’intera società cinese, rompendo non solo tutte le gerarchie sociali, ma pure i livelli accademici , scientifici, nonché industriali e produttivi della Cina, facendoli fortemente arretrare. Ma permise a Mao Zedong, il cui potere era allora assai periclitante, di riprenderlo saldamente, con l’appoggio dell’esercito. E perciò (ri)vediamo il ritratto del Grande Timoniere spesso effigiato nel film. E ciò è in linea con il processo di “beatificazione” in atto del “Presidente Xi”: come è chiamato, in un’intensa quanto evidente campagna di assunzione ideologica all’eredità del “Presidente Mao”, XiJinping, attuale numero 1 del PCC.
In questa chiave va letta e inquadrata anche l’intensa ideologia seriamente e profondamente ecologista del film. “L’Impero di Mezzo “ (la Cina), destinata a divenire tra breve la prima superpotenza mondiale, è afflitta, a causa della sua strana e anomala (perché in una cornice socialista…), benché violenta opera di industrializzazione capitalistica, da gravissimi squilibri ambientali, che possono in definitiva tarpare le ali allo sviluppo stesso. Ecco perché l’ecologia sta diventando una “bandiera” ufficiale, culturale e ideologica.
Il film è tratto da un long seller cinese: in esso il rapporto con la natura incontaminata della Tundra mongola, è reso con attenta e circostanziata simpatia. Il lupo, che va rispettato e, nei limiti della sopravvivenza degli umani, difeso, è parte integrante di un complesso equilibrio in cui tutto ha una sua funzione strutturale. Quando i lupi, in branco e sulla base di un’accorta strategia, attaccano le gazzelle, il saggio capovillaggio indica nelle gazzelle “le assassine”, perché brucano i prati che impediscono al terreno di polverizzarsi.
I lupi fanno scorta di carne lasciandola nel ghiaccio: i nomadi ne prendono solo una parte. Chi la ruba per trarne lucro, affamano i lupi. Ed ecco che il fragile equilibrio è compromesso. I lupi, per fame, si avventano sugli allevamenti dell’uomo; per vendetta ne sono perseguitati fino all’estinzione. Ma così facendo le talpe, i conigli, i più micidiali nemici della conservazione prativa della steppa, non hanno più antagonisti: così prosperano, mettendo in serio pericolo l’intero habitat. E anche l’industrializzazione selvaggia porterà problemi.
Tutto ciò il film ci dice, senza lezioncine ma facendo parlare l’azione, i fatti ei personaggi, umani e non umani nel loro porsi drammaturgicamente sulla scena dell’ambiente naturale, con un senso della narrazione ampio, epico, di maestoso respiro narrativo e figurativo, fortemente contrastato cromaticamente. Vi sono alcune sequenze, come la tormenta di neve con i lupi all’attacco, di sconvolgente riuscita.
L’insieme è di grande fascino visivo. In cui i personaggi, anche se un po’ schematici, hanno la presa e la consapevolezza di forti presenze sceniche. Tranne il capopartito, che invece ha più sfumature riflessive sul suo difficile ruolo: una specie di richiesta di scuse affidata al futuro.
Francesco “Ciccio” Capozzi