Belfast ‘71, la giovane recluta Gary si trova ferito e braccato nel gioco a massacro tra gli opposti e intestini terrorismi dei cattolici dell’IRA, della sua area più irriducibile, i Provisionals), e i protestanti lealisti inglesi, Soprattutto è alle prese con le oscure manovre dei Servizi Segreti dell’esercito britannico, intenzionati a far precipitare la situazione.
Il vostro cronista cinematografico talvolta si sente come quel bambino che guardando le stelle, osserva entusiasta il passaggio di una bellissima meteora, la indica agli astanti, ma quelli distratti vi pongono (un po’ di) attenzione solo quando è scomparsa. Come per questo bel film (UK, ‘14). Che tra l’altro è in inglese sottotitolato; il che certo non aiuta. La GoodFilms di Ginevra e Lapo Elkan fanno opera assolutamente meritoria e coraggiosa nel distribuirlo.
Il regista è il francese naturalizzato inglese Yann Demange. Viene dal Cinema di Realtà (il Documentario). Ha lavorato in TV e questo è il suo primo lungometraggio. Lui e il suo abile sceneggiatore Gregory Burke, pur nella documentazione ineccepibile sulla difficile e complicata realtà storica dell’epoca, hanno posto attenzione soprattutto,come ha dichiarato il regista, al lato umano della questione.
In fondo il protagonista era uno di quei soldatini, ragazzi come tanti, buttati in una realtà fornace a combattere e a sopravvivere alla ferocia soprattutto contro loro coetanei altrettanto smarriti, senza sapere bene il perché.
Ed è stata l’immagine di un anonimo giovanissimo soldato inglese, piangente e disperato, proprio in Ulster, dopo un sanguinoso scontro cui era sopravvissuto, a spingere Demange a fare il film. In questo senso lui non è partito dalle vicende d’Irlanda in quanto tali, ma ha preso quelle come emblematiche e sintetiche. In cui avviene uno stravolgimento totale e furioso di ogni senso e segno di umanità, e in cui le ragioni, spesso ideologiche, di religione conclamate, anzi urlate, sono il più delle volte paravento a ipocrite e più complesse, spregiudicate motivazioni, per lo più ciniche: espressione di corposi, quanto nascosti interessi politico-economici.
Tuttavia l’apologo riflessivo qui sviluppato ha la forza trascinante della verità documentata: non obbedisce, a sua volta, a pre-giudizi asseverati d’indole ideologica magari cripto-marxista … Ma alla forza concentrata di un’esposizione che va avanti con energia e chiarezza narrativa.
Non accumulando gli uni sugli altri i segmenti descritti–coma accadrebbe in una narrazione “urlata”, perché costituita “prima” ma sviluppandoli analiticamente con la dovuta benché concisa attenzione drammaturgica, per poi farli convogliare – convincentemente – al momento della massima tensione finale.
Ad esempio: che nelle lotte terroristiche in Ulster vi fosse più di uno zampino dei Servizi inglesi, volto a implementare e non a limitare disordine e caos , era noto. Come fu provato, di lì a poco gli avvenimenti qui narrati, in occasione della terribile “Domenica di Sangue” del 30 gennaio ‘72 , in cui furono massacrati a freddo 12 pacifisti manifestanti per il dialogo tra le diverse componenti social-religiose dell’Ulster. Che ha ispirato, a parte la canzone degli U-2, il film capolavoro “Bloody Sunday”.
Come anche erano note all’interno dei “combattenti” separatisti cattolici le varie componenti ecc. Ma tutta questa serissima documentazione serve agli autori per dare “corpo” alla solitudine di questo ragazzo, l’attore Jack O’Connel, dalla faccia semianonima di proletario-underclass che è in realtà un attore di cinema, teatro e tv serio e preparato. Sballottato tra i vicoli di questa spaventevole Belfast, che sembra una città-horror, fatta di distruzione e minacce.
Il fotografo Tat Radcliffe e il montatore Chris Wyatt, quest’ultimo con un’esperienza in campo artistico con grandi registi come Peter Greenaway, hanno fatto un lavoro di grande se non eccelsa qualità. Hanno reso la sostanziale povertà produttiva un elemento espressivo, in grado di “attivarsi”, usando gli stilemi tipici del cinema di realtà (riprese digitali, ravvicinate e “strette” sui ppp, molti stacchi ecc.) e trasmettere emozioni e partecipazione alle vicende.
Così gli sfondi attorno al nostro hanno un’indeterminatezza da sembrare un’atmosfera da favola dark. E quei dirupati abitacoli collettivi sembrano caverne, da cui sono pronti a spuntare degli zombi.
Eppure siamo in una terra d’Europa: non è comunque, a ben pensarci, molto diversa dalla Sarajevo straziata dalle bombe e dalla ferocia degli anni ‘90, anch’essa a pochi km da noi.
Eppure anche lì non manca l’umanità: come nel personaggio del medico che lo aiuta; oppure quel ragazzino che, pur se cresciuto nell’odio mostra sempre di essere un ragazzino; o come quell’anonima donna che vorrebbe e evitare il peggio ai soldati.
Francesco “Ciccio” Capozzi