Londra, 1956: Marilyn, la diva per eccellenza, è alle prese col suo “film inglese” col mostro sacro Laurence Olivier. Tra incomprensioni e insicurezze del set, c’è la pausa del rapporto col giovane terzo assistente.
E’ molto difficile dare vita a un mito. Tuttavia la sua è stata una vita “piena”di successi, ma anche di sofferenze e “vuota” di solitudine. Perché la sua vera “professione” è stata quella di costruire un’immagine pubblica di sé, la Marilyn che tutti conosciamo, che fosse di sfrontata copertura , negazione e di risarcimento alla Norma Jean, questo era il suo nome, dell’infanzia infelice, in cui la bellezza prorompente evitale spesso era una condanna; e perfino il suo cognome vero non è certo che sia Baker o Mortenson.
Un’identità negata che il film (USA-UK, ‘11) costruisce dal libro autobiografico di Colin Clark, a metà tra il gossip e un romanzo di formazione. Il regista inglese Simon Curtis fa svolgere il film tra l’incedere ampio del biopic (il sottogenere narrativo, di biografia romanzata) e analisi del personaggio e dei contesti , con equilibrio tra le parti, cura dei dettagli scenici (Pinewood , la Cinecittà inglese, è resa con malinconica esattezza), sottraendosi all’ambiguità del libro.
In questo la sceneggiatura di Adrian Hodges è stata di grande supporto . Ma il film si basa molto anche su una strepitosa Michelle Williams che interpreta, con sofferta vibranza , la complessa personalità dell’attrice; come al coro dei comprimari, K.Branagh in testa. In realtà solo una sensibilità europea poteva penetrare la stratificata realtà della personalità di Marilyn, fatta di fragilità e di conflittualità più o meno ambigue, come ci è fatto comprendere dalle ragioni “non dette” del rapporto di Olivier, o del marito Arthur Miller, con lei.
Francesco “Ciccio” Capozzi