Inverno 1917: Altopiano di Asiago, una notte in trincea alla vigilia di una missione che sarà sicuramente e inutilmente suicida, ordinata dagli Alti Comandi, insensibilmente lontani dalla guerra vera. Tra crisi individuali, orrori, morti, di fronte ad una silenziosa natura innevata.
Ermanno Olmi, prestigioso maestro del cinema italiano,sceneggiatore e registadel film (ITA, ‘14) alla fresca età di 83 anni, anche se spesso coadiuvato nelle riprese in alta montagna (tutte al di sopra dei 1100 m e per lo più in esterni) dal collega Maurizio Zaccaro, ha così inteso celebrare, a modo suo, il centenario dell’inizio della Grande Guerra.
Che fu la prima del “secolo breve”, iniziata nel 1914, e che vide l’Italia parteciparvi dal ‘15 fino alla fine, il ‘18. Sembrerà paradossale: ma su un grande evento, il regista ripiega sulla “piccola” dimensione umana, della realtà ristretta della vita di trincea in cui non sembra esservi narrazione di eventi, ma solo del lasciarsi vivere in una realtà del tutto avulsa dal vivere.
Perché lì non è vivere; e nemmeno sopravvivere, perché già ci si sente morti, sospesi nel nulla, nella più totale perdita della speranza che quella non-vita che è la guerra di trincea abbia fine.
Gli unici elementi di vita sono evidenziati dalla “stupidità” della natura, che si presenta col suo accompagnare la sofferenza pervasa di disperazione, come nella voragine a imbuto dantesca degli umani colà costipati, col suo tratto di casuale normalità.
E sono animali che attraversano per caso il campo visivo degli abitanti delle trincee-caverne, e li osservano nella più totale indifferenza. E anche l’albero-ginestra leopardiana che resiste, simbolo di continuità e sopravvivenza della natura, nella fantasia del soldatino che lo guardava preso dalla poesia della sua semplice bellezza, viene alla fine abbattuto dal bombardamento a tappeto.
Ma la natura è sovranamente estranea alla poesia che gli uomini vogliono affibbiarle, come una soma portata con leggerezza e inconcludenza da un animale che nemmeno ne ha contezza, e che per noi ha invece le sembianze di una passiva accettazione.
Lo sforzo incredibile del cinema di Olmi, qui, è di riportare tutto ad una cifra di assoluta, intensa spiritualità. Che resta fuori « … dalle troppe mediazioni letterarie, mentre volevo immediatezza, stupore, dramma e la poesia dell’essere vivi» – ha così dichiarato il regista.
E questa spiritualità, composta di solidarietà e di supremo non-odio per un nemico imposto come tale, che invece è un povero disgrasiàa del tutto simile a lui, è tutta e solo all’interno dello sguardo interiore dei suoi personaggi.
È uno sguardo che non vede nemici, che non appaiono, ma solo osserva e ne è osservato i limiti di legno e di pietra di ciò che li circonda: ed è quindi come riflesso dentro di loro da quei margini angusti.
C’è una sequenza, quasi giocosa, di un soldato che gioca con un topino: in realtà il regista, in metafora, ci dice che gli uomini hanno saputo assumere il punto di vista topesco, pur di sopravvivere.
Ma non c’è nulla di spregiativo o di auto persecutorio. Al contrario ha un tratto francescano, perché l’animale è trattato con simpatia e rispetto: in fondo è il suo habitat che loro sono venuti ad invadere.
La assoluta insensatezza della guerra, e di quella in particolare, è suggerita “dall’interno”, non dal conflitto con gli eventuali “cattivi”, ma dalla evidente catastrofica imbecillità di ordini omicidi che annega negli sguardi persi di quelli che dovrebbero obbedire.
Il film è invaso dal silenzio. È un silenzio “cantatore”, perché da una parte riecheggia col suo fluire di immagini, che, al contrario, hanno un loro ritmo intenso e cristallinamente “sonoro”, nelle anime nostre e dei personaggi. Dall’altra ci induce a concentrarci con quel rapporto con la natura su cui il regista ha costruito il controcanto visuale.
Ha usato una fotografia, curata da Fabio Olmi, di apparente bianco e nero: in realtà un colore desaturato, come spolpato e reso nella sua pura intensa essenzialità. Una specie di fotografia interiore. Una metafora visiva sull’esistenza.
Da notare che Fabio Olmi, figlio del regista, non ha conquistato i galloni perché figlio di ma perché è davvero bravo.
La musica, sui titoli finali, di Paolo Fresu, nella sua sperimentalità suggerisce una densa riflessione fuori da ogni tempo storico.
Francesco “Ciccio” Capozzi