NAPOLI – “Non c’è niente di più comico dell’infelicità”.
Inizia così lo spettacolo teatrale Da Krapp a Senza Parole andato in scena al Teatro Nuovo del Centro Direzionale.
Con questo paradosso estrapolato da Finale di partita Glauco Mauri e Roberto Sturno, nei panni di Estragone e Vladimiro, i personaggi dell’opera più celebre di Beckett Aspettando Godot, presentano il teatro beckettiano nel Prologo del primo atto.
Vengono passate in rassegna citazioni tratte da numerose opere che hanno lo scopo di sintetizzare la vita e l’opera di uno dei più influenti innovatori della tradizione teatrale novecentesca.
Il drammaturgo irlandese viene così portato in scena, nel suo ininterrotto e irrisorio ragionare sulla vita, sull’arte, sull’infelicità.
Nel marzo del 1980, la Ohio State University commissiona a Beckett la stesura di un’opera teatrale per celebrare i suoi settantacinque anni.
Nasce così Improvviso dell’Ohio, uno dei testi più personali e sofferti di Beckett.
Sul palcoscenico del Teatro Nuovo, nella seconda sequenza in cui è diviso lo spettacolo che si snoda attraverso diversi episodi, Mauri e Sturno, avvolti in lunghi pastrani neri e con una fluente cascata di capelli bianchissimi, incarnano le figure dei due protagonisti: il Lettore e l’Ascoltatore.
Il Lettore legge un libro, forse un diario, all’Ascoltatore per lenire un dolore, un’assenza, s’immagina.
Conclusa la lettura, i due personaggi sollevano il capo e finalmente al pubblico è concesso di vedere i loro volti. Si tratta della stessa persona, in un autentico sdoppiamento, immersa nella dolorosa rievocazione della donna amata.
È Suzanne, la donna che Beckett amò negli anni più maturi della sua esistenza.
«L’ho immaginata tante volte – scrive il drammaturgo- ho immaginato anche che mi trascinavo fino alla sua tomba».
Segue quindi Respiro, dove una scenografia composta essenzialmente di rifiuti e scarti, presenta la Vita, della durata di un attimo: il primo vagito, poi l’esalazione dell’ultimo respiro.
Null’altro? Niente. Ogni elemento aggiuntivo sarebbe risultato ingombrante e superfluo.
La vita viene analizzata nella sua immediatezza: è un respiro.
In Atto senza parole, Roberto Sturno, da solo in scena, si scontra in una comica pantomima con la Vita.
Non una parola. Solo un fischio, di tanto in tanto, che introduce gli oggetti di scena. La vita regala e priva.
È una comicità lacerante, di una mestizia cupa.
Anche i tentativi di suicidio si rivelano fallimentari ed il protagonista trova un suo personale riscatto in un definitivo diniego. Capisce che c’è un’unica forma di contrasto alle illusioni e che essa risiede nella completa indifferenza.
Quell’indifferenza che il grande poeta italiano Eugenio Montale definisce divina, unica forma di bene concessa all’uomo.
Il primo atto si conclude, ed è strano alzarsi dalla poltrona del teatro e trascorrere il quarto d’ora di intervallo. Lo spettatore è privato di qualsiasi lucida considerazione, gli oggetti della realtà si trasformano in oggetti di scena, anch’essi illusori.
Una boccata d’aria nel freddo invernale, non è più di alcuna consolazione, il teatro assorbe lo spettatore, scatena in lui un dissidio in cui l’unica domanda che emerge con esattezza è: cos’è la realtà?
Un drammaturgo contemporaneo a Beckett, di grandezza altrettanto inestimabile, Luigi Pirandello, considerava l’arte come « … un’enorme pupazzata, del tutto inutile ma necessaria per vivere».
Il teatro dell’assurdo di Beckett è la Vita stessa, demistificata, ridotta all’osso, mostrata nella sua insensatezza, nei suoi paradossi.
Albert Camus scriveva: «Ad ogni angolo di strada, il sentimento dell’assurdo potrebbe colpire un uomo in faccia».
Il teatro beckettiano, diviene in questa prospettiva il sentimento dell’assurdo.
Ultimo atto della pièce teatrale L’ultimo nastro di Krapp, vede come protagonista il solo Glauco Mauri, ormai consacrato nel ruolo di mostro sacro, immerso nella confusione della sua scrivania.
La luce di un lampadario, proprio sulla sua testa, illumina il mangianastri che egli ha davanti a sé, sul quale gira una bobina.
Una voce si propaga dal nastro, è quella di Krapp, la versione trentanovenne del vecchio Krapp che siede davanti alla scrivania e che riascolta con emozione e con rammarico il ricordo dei suoi lunghi anni trascorsi, di cui quella voce non è altro che il fantasma.
In questo ammasso inestricabile di ricordi perduti, riaffiora nitida l’immagina di una donna dagli occhi profondi « … in cui c’era tutto, tutto».
Krapp ascolta e poi registra il suo ultimo nastro, in cui rimprovera il se stesso del passato, di non aver saputo raggiungere la felicità.
«Ma forse – conclude – aveva ragione lui».